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Una degustazione verticale di Nonna Concetta Calabretta, Etna rosso da vigne centenarie

Si può fare il vino dagli ulivi? Forse si. Le vigne centenarie da cui Massimiliano Calabretta sublima poche bottiglie l’anno, traggono in inganno e ci fanno rischiare una figura da pivelli.

Bassi tronchi, nodosi e contorti, sparpagliati in un campo inerbito a Passopisciaro, sul versante nord dell’Etna: sembrano proprio piccoli ulivi, invece sono vecchie viti di nerello mascalese, prevalentemente a piede franco.

Le ultime bottiglie gelosamente custodite nella mia cantina subiscono una sorta di cerimoniale liturgico, che io con un freddo tecnicismo descrivo come degustazione verticale.
Ospiti di un amico, grande amante del vino, nonché talentuoso Chef di ispirazione “intellettuale” (non me ne voglia per la definizione), Alberto Rizzo dell’Osteria dei Vespri di Palermo, abbiamo meticolosamente degustato le annate 2007, 2009, 2010 e 2011 di Nonna Concetta. E dopo ce le siamo scolate tutte. Insieme ad un pugno di santi bevitori che si sono sacrificati con noi sull’altare della degustazione.

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Alberto Rizzo, Osteria dei vespri

 

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Intanto va segnalato che i tappi di sughero erano in perfette condizioni, anche il più datato. Il vino non presentavano segni di ossidazione né alla vista né all’olfatto.
Il colore è quello del Nerello Mascalese, rosso tendente al granato, trasparente per il basso contenuto di antociani di questa varietà, leggermente più opalescente quello del 2007.

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A parere quasi unanime il millesimo più esaltante è stato il 2011. In apertura con un profilo aromatico olfattivo omogeneo e regolare, che nel tempo si è aperto rivelando intensi e compatti sentori di amarena, foglia di tabacco, foglia di pomodoro, viola e note balsamiche di eucalipto.
Al palato ha una tessitura tannica fine ma intensa, ben percepibile. In retrolfazione ricompare la marasca e la viola, insieme a sentori di rabarbaro.

Al secondo posto il 2009, annata considerata brutta sull’Etna, fredda e piovosa, con ritardi di maturazione dell’uva, si rivela invece un annata vincente. Il vino è chiaramente più fresco e di buona acidità, longilineo e deciso. Gli aromi di apertura suggeriscono immediatamente sentori di essenza di rosa insieme a note agrumate che ricordano la scorza delle arance navel, seguiti da note di legno esotico. Alla roteazione emergono sottili aromi di zenzero e foglia di tabacco.

Il terzo posto va allo spareggio per parità di voti. A mio parere lo merita il 2007, secondo altri il palmares va al 2010.

Il 2007 si presenta con un profilo caratterizzato in maniera dominante da note di evoluzione terziaria, spezie orientali che rivaleggiano con chiari sentori di rosa, sottili note di zenzero, liquirizia e tabacco, seguite da confettura di amarene. Al palato i tannini sono sottili e setosi, in retrolfazione compaiono sentori di ginepro ed il finale tende all’amaricante. La persistenza gustolfattiva è lunghissima.

Il 2010 è tonico e muscolare, con un profilo di apertura che rivela aromi di amarena matura e scorza di arancia rossa. Alla roteazione emergono sentori floreali che richiamano alla memoria la plumeria e il fiore del sambuco. La trama tannica è fitta, al palato è di buona consistenza, la retrolfazione ritorna sulle note floreali e sull’amarena.

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Maialino alla pizzaiola

Massimo Calabretta, detto Gaio, e suo figlio Massimiliano sono due persone con un temperamento passionale, caldo come il vulcano su cui coltivano le loro vigne. Titolari di una delle più vecchie aziende vinicole di Randazzo, hanno con il loro territorio e con le loro uve un rapporto viscerale, di amore e rispetto, che suscita meraviglia ed ammirazione in chi ha la fortuna di ascoltare i loro racconti.

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Massimo e Massimiliano Calabretta

Papà Massimo ci dice come sin da bambino abbia lavorato presso la distilleria di famiglia girando per le aziende agricole a raccogliere le bucce dell’uva, residuo di fermentazione: “Io conosco questi terreni palmo per palmo. Da bambino con mio padre raccoglievamo le bucce provenienti da tutte le vigne della zona; ho imparato da lui a riconoscere l’uva migliore da quella più povera, le vigne pregiate da quelle meno buone, i terreni maggiormente vocati alla viticoltura”.

E continua narrando dei metodi di coltivazione tradizionali, evolutisi nei secoli tra quei contadini abituati a cercare di ottenere il meglio da un territorio arso e brullo: “Quando ero piccolo le vigne si concimavano col metodo della felce. Venivano scavati solchi tra i filari, si riempivano con felci e piccole quantità di letame, quindi si ricoprivano. In questo modo non si saturava il terreno con nutrienti, le felci garantivano una micro-ossigenazione che determinava un equilibrio della durata di anni. Le viti avevano il giusto apporto di azoto e sostanze nutrienti, cercando tutto il resto che gli serviva in profondità nel terreno”.

Interviene Massimiliano: “Il vino lo fa la vigna. Meglio è coltivata la vigna e migliore sarà il risultato finale”, e continua “Il problema dell’enotecnica moderna è anche il mosto concentrato. Il suo uso è consentito dalla legge ma in realtà snatura il profilo organolettico originale del vino”.

Massimiliano Calabretta in vigna

Massimiliano Calabretta in vigna

 

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Calabretta vigne

Ed in realtà passeggiare tra i loro vigneti, situati tra i 600 ed i 700 metri su sabbia nera lavica, suscita meraviglia ed ammirazione. Tra i filari ben curati crescono liberamente erba e piante selvatiche. “Ogni tanto faccio un sovescio col favino, però non troppo spesso, per non arricchire eccessivamente il terreno di azoto”, ci spiega Massimiliano. “Le piante hanno un loro equilibrio, devono essere libere di crescere, appassire e trasformarsi esse stesse in concime”. Grilli ed insetti, vermetti nel terreno, sono la testimonianza dell’assenza di prodotti anticrittogamici o pesticidi. E nonostante questo le viti sono in genere perfettamente sane ed integre.

Massimiliano ci spiega le differenze tra i vari vigneti ed i diversi cloni, tra il nerello mascalese ed il nerello cappuccio. Ci racconta come la coltivazione sia orientata a rese non superiori ai 40 quintali per ettaro.

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Vigna Nonna Concetta

 

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La vigna da cui ottiene 800 bottiglie di Nonna Concetta, nelle annate migliori, è un vigneto vecchio dagli 80 ai 120 anni anni, parzialmente a piede franco. Piante sparpagliate in un campo inerbito a Passopisciaro, sul versante nord dell’Etna, coltivate ad alberello basso o a calice, con tronchi il cui perimetro alla base si può misurare in decine di centimetri.

La cantina segue la stessa filosofia naturale delle vigne. Nessun prodotto enotecnico capace di alterare l’aroma originale delle uve, del mosto o del vino. Soltanto legni vecchi, ovviamente niente mosto concentrato.

 

10 thoughts on “Una degustazione verticale di Nonna Concetta Calabretta, Etna rosso da vigne centenarie

  1. Nic Marsél

    Invidia a parte, non mi racconterete mica che in sicilia c’è necessità di MCR 😉

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    1. Massimiliano Montes

      @Nic Marsél, tu non ci crederai ma lo usano 😀
      Forse ci può dare lumi Max Calabretta.

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  2. Nic Marsél

    Sarei portato a pensare, per logica, che il mosto concentrato si utilizzi per elevare il grado zuccherino in zone fredde dove l’uva non raggiunge una sufficiente maturazione e in annate particolarmente sfavorevoli. Ma in sicilia? Con l’innalzamento delle teperature per giunta…

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    1. Massimiliano Montes

      @Nic Marsél, non tutte le annate sono uguali. Gli innalzamenti delle temperature spesso portano ad aumento della piovosità parossistica, alternata a periodi di siccità, e se la pioggia arriva prima della vendemmia ti frega. Infine, motivo totalmente assorbente, standardizzazione.
      Nelle brutte annate, come questa in Sicilia, molti hanno preferito anticipare la vendemmia, portare in cantina uva a basso contenuto zuccherino, riducendo i rischi di perderne in quantità, e aggiustare tutto col mosto concentrato e mosto concentrato rettificato.
      Diciamo per precisione che il mosto concentrato rettificato è una soluzione zuccherina neutra, inodore e insapore. Costosa, spesso viene sostituita da più economiche pedane di zucchero da supermercato 😉
      Il mosto concentrato invece è vero e proprio mosto leggermente disidratato, che mantiene inalterate le caratteristiche organolettiche dell’uva di provenienza.
      Per legge è legale aggiungere mosto concentrato, per esempio da cabernet sauvignon o merlot, fino all’innalzamento di due gradi alcolici del vino finale. Ovviamente il vino saprà di cabernet sauvignon o merlot 😉

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      1. Nic Marsél

        @Massimiliano Montes, due mila chilometri più a nord, in Champagne, la grandi maison hanno grossi problemi mantenere livelli di acidità accettabili per il loro prodotto e in Sicilia si userebbe MCR per innalzare il grado alcolico? Lascia che resti molto dubbioso.

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        1. Nic Marsél

          @Massimiliano Montes, mi nutro del dubbio, che mi fa sopravvivere 😉

        2. Massimiliano Montes

          @Nic Marsél, sei il solito candido… 😛 I vini commerciali sono interamente costruiti in cantina. Non solo in Sicilia. L’uva è solo una base (quando c’è), che raccolta prima ha maggiore versatilità, consente una migliore costruzione dopo. Altrimenti smettiamo di parlare di vini naturali.

        3. Nic Marsél

          @Massimiliano Montes, Per essere chiari. Un conto sono i vini naturali, un conto è la massa di vino per i grandi imbottigliatori che interessano i grandi buyer i quali determinano i prezzi di mercato delle denominazione e, per ricaduta, le metologie di produzione in origine che consentono di portare a casa un minimo di margine. Di questo si sa poco o nulla perchè la tracciabilità è complicata ma probabilmente è qui che si fanno i grandi numeri. Però in mezzo c’è un’ampia zona grigia, che è quella con al quale normalmente “dialoghiamo”. Vini NON naturali ai quali rispondono nomi e cognomi di produttori che non fanno porcherie e di sicuro non usano MCR. Inoltre l’arricchimento e l’uso dei concentratori vanno dichiarati alla repressione frodi e non sono consentite per molte DOC e DOCG.

        4. Nic Marsél

          @Massimiliano Montes, PS tutti i vini sono commerciali, compresi quelli naturali.

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