Dovrei raccontarvi dell’incontro con un produttore sloveno di nome Marko Fon. Dovrei parlarvi di un bicchiere della sua Malvazija 2012, che pare un’infusione d’un quintale di pesche e albicocche mature. Dovrei riferirvi della sua Vitovska 2011, in perfetto equilibrio tra freschezza e complessità.
Dell’enorme distanza con lo stile macerativo degli omologhi italiani. Dell’esemplare pulizia di ognuno dei suoi vini naturali, ottenuti da fermentazioni in tino aperto, con lieviti indigeni e soprattutto da vigne che forniscono quantità irrisorie di frutti. Dell’uva che in parte fa appassire, ma soltanto per poterne mangiare durante l’anno. Dei 200gr di Malvazija per pianta, della Vitovska che fa “1 pianta= 1 bottiglia, perché la Vitoska è molto generosa”. Della malolattica svolta da tutti i bianchi, armoniose misture di eleganza, estratto e persistenza. Della Malvazija Riserva 2011 prodotta da piante di oltre quarant’anni perché “è come per gli esseri umani: dopo quarant’anni cambiano tante cose”.
Dovrei raccontarvi delle 120 bottiglie di Malvazija etichettate come “Quattro Stati” da viti oggi centenarie nate sotto l’impero austro-ungarico e passate indenni, testimoni della storia, sotto le bandiere italiana, jugoslava e infine slovena. Dovrei riferirvi che non partecipa a nessuna fiera di settore, che le 5000 bottiglie ricavate da 4 ettari di ossido di ferro sono difficili da reperire e che Marko le vende tutte nel volgere di una stagione non potendosi permettere di tenerne in cantina.
Che la densità d’impianto fa a pugni con la più ragionevole delle strategie di profitto: “non c’è regola fissa per il sesto d’impianto, ogni pianta ha le sue esigenze e noi dobbiamo preservare l’equilibrio terra-frutto e foglia-grappolo”.
Dovrei poi raccontarvi dell’incontro col giovane Marko Tavčar (si pronuncia “taucer”) e del suo stupefacente Teran “Pietra” 2006 (Terrano, ovviamente), spigoloso, selvatico, vitale, unico, profondissimo in soli dodici gradi. E spiegarvi che Tavčar oltre ad essere vignaiolo è anche una specie di cuoco ambulante che si porta da casa tutta (ma proprio tutta) la materia prima.
Dovrei descrivervi la sua cucina che trabocca di passione e di ingredienti genuini in via d’estinzione. E narrare di un burro che in Italia non l’ha mai visto nessuno, di un capocollo che letteralmente si scioglie in bocca. E di patate bollite con burro fuso e sale grosso da strappare applausi.
Marko Fon e Marko Tavčar, oltre al nome di battesimo, condividono una parte delle vigne che lavorano assieme. Chiedo a Fon cosa li differenzi dal punto di vista enologico: “dieci anni” mi risponde sorridendo. “E’ come per le piante: dieci anni fanno tanta differenza”. Dovrei cercare di rendere giustizia al suo umorismo e tentare di contagiarvi con quell’italiano terribilmente efficace. E riuscire a mostrarvi la luce nei suoi occhi mentre descrive, sbriciolandola tra le dita, la terra rossa portata con sé, ma per fortuna tutto questo mi è impossibile cosicché la magia, ancora una volta, è salva.
Un messaggio chiave si impone pian piano, di assaggio in assaggio: il vino non è tutto. Per Marko&Marko è solo un aspetto, tutt’altro che preponderante, di un intero microcosmo che si chiama Kras, il Carso Sloveno tutto da scoprire. Puoi anche produrre un grande vino praticando la monocoltura (e promuovendo monocultura) ma non renderai un favore al territorio, al contrario finirai per impoverirlo. Il vino non è importante se non nel contesto di un ambiente in cui l’uomo vive nel rispetto della biodiversità di cui quel territorio è unico portavoce. A proposito, si dice che la piccola località di Brje sia già da tempo meta di pellegrinaggio per enostrippati di ogni sorta e culto. Io son stato fortunato perché “il maestro” mi è apparso in un agriturismo a due passi da casa. E allora segnatevi questi due nomi: Marko Fon e Marko Tavčar. Se vi dovesse capitare l’occasione non fatevela sfuggire, ne vale davvero la pena.
P.S. Complimenti a Lorenzo Berlendis di Terra Madre Slow Food Lombardia e a Claudia Crippa dell’azienda La Costa per la bellissima serata organizzata alla Cascina Scarpata. Un grazie a Jacopo Cossater e Corrado Fumagalli per il prezioso e spassionato consiglio. Infine grazie a Vénera Kastrati per video e foto.
Grande Nic! E complimenti per le affascinanti fotografie 🙂
grazei Nic sostengo da tempo che il paesaggio delle Langhe adesso sia brutto, monotono, industriale come la valle di Pachino né più né meno…stessa cosa per il Medoc…dove non ci sono più nemmeno gli abitanti, solo km di filari e poveri lavoranti magrebini abbarbicati attorno ai venditori di kebab che spesso son l’unico locale aperto in paesi fantasma…Per Mosella e Alsazia già è diverso almeno ci sono tanti boschi e qualche frutteto…il vino NON è tutto..parole sante…
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Serata davvero bella….
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