Domenica a pranzo sarò a casa di Paolo. Mi ha invitato perché preparerà la “cassoeula”, un piatto della tradizione brianzola a base di verze e carne di maiale. Il cibo simbolo dei nostri nonni e dei nostri padri, al contempo povero e opulento, duro, grezzo, maschio, non certo per palati fini.
Si pronuncia con la esse sibilante di “serpe”, e l’accento appoggiato sulla seconda sillaba, quella “eu” di diretta derivazione francese malgrado, suono a parte, la cassoeula di francese non abbia proprio nulla se non una vaga parentela con la Choucroute alsaziana. Si cucinava e si cucina ancora oggi nei giorni di festa dopo le prime gelate invernali, quando le verze raggiungono il loro apice qualitativo ma soprattutto in corrispondenza dell’inizio della stagione della macellazione del maiale, del quale si utilizzano più che altro gli scarti come la cotenna (la meno nobile, ovvero quella non idonea alla lavorazione del cotechino o “vaniglia” come si dice da noi) il musetto, i piedini, le orecchie e il codino.
Con il boom economico, negli anni sessanta, sono entrate a far parte della ricetta anche le ben più preziose costine (comunque solo una piccola parte, generosamente concessa dal norcino addetto agli insaccati) e qualche salamino, i cosiddetti verzini. E’ una pietanza grassa e quindi non proprio digeribile, che nasce fondamentalmente dall’indigenza: in brianza i mezzadri dovevano lasciare le parti migliori del maiale al proprietario terriero, per cui occorreva industriarsi per rendere appetibile e trasformare in preziose calorie anche ciò che a prima vista sarebbe parso inutilizzabile. Per forza di cose non la si può preparare per pochi intimi: il grande pentolone, indispensabile per contenere le voluminose verze e il capace paiolo di rame per l’ugualmente abbondante polenta, invitano naturalmente alla socialità, alla convivialità e alla condivisione, un po’ come accadeva nelle cascine plurifamiliari e nelle cooperative sociali del dopoguerra.
Sulla sua preparazione ci sarebbe molto da dire perché ogni casa custodisce un piccolo segreto o una variazione sul tema in grado di conferire quel tocco personale che è un po’ la caratteristica della cassoeula stessa. Ma in fondo non è di questo che intendo parlare. L’importante è ciò che accadrà Domenica. Perché di solito la Domenica salto il pranzo e di norma, indipendentemente dal giorno, non mangio carne. La cassoeula a dire la verità, non è nemmeno tra i miei piatti preferiti.
Paolo mi ha confidato di aver speso un piccolo capitale in verze biologiche, cosa che fa un certo effetto per noi ex ragazzi di paese per i quali la verza è sempre stata quella dell’orto, e quindi gratuita. Ma gli anziani se ne stanno andando e gli orti con loro. Paolo è mio amico e si prodiga parecchio in cucina, ma credo che non si offenderà se affermo che la sua cassoeula non riesce ancora ad avvicinare i vertici toccati da quelle delle nostre madri. Ma sono assolutamente certo che Domenica prossima mi piacerà un sacco e che Paolo sfodererà la sua migliore versione di sempre, e soprattutto perché ci troveremo ancora una volta insieme, seduti attorno al tavolo.
Saremo in tanti e ci divertiremo.
Mi presenterò con un Lambrusco di Vittorio Graziano: il “Fontana dei boschi” del 2009, col tappo a corona verde (o forse arancio?), posto ad ulteriore protezione del sughero sottostante, ad indicare quelle bottiglie che hanno subito l’operazione di sboccatura, come si usa fare per il metodo classico. Lo stapperemo allegramente e i nostri brindisi ci conviceranno che l’annata 2009 è nettamente superiore alla 2010. Il naso confermerà quanto la sboccatura sia stata in grado di conferire al Grasparossa quell’eleganza alla quale la versione col fondo, col tappo arancio (o forse era verde?), non potrà mai arrivare e godremo appieno del suo gusto croccante e di quel caratteristico finale di mandorla amara.
La delicata carbonica ci solleticherà l’ugola invitandoci a liberare i canti dei fantasmi dei nostri antenati che ci terremo dentro a stento. Ma prima mangeremo e berremo a sazietà in memoria dei nostri vecchi e della loro fame atavica, ed essi, da qualche luogo ignoto, ci guarderanno con un misto di accondiscendenza, affetto, orgoglio e soddisfazione.
Ci riempiremo di polenta gialla fin quasi a scoppiare e arriveremo in fretta alla fine della bottiglia scoprendo, con nostra grande sorpresa, la presenza di abbondante deposito sul fondo a certificare che, di nuovo, avrò confuso il colore di quei maledetti tappi a corona. E allora ricontrolleremo il lotto in etichetta coi nostri occhiali di novelli presbiti ed appureremo, con ulteriore stupore, trattarsi della vendemmia 2010 e non della 2009. E rideremo una volta di più, del nostro ennesimo errore perché alla fine non importa un accidente. E se poi nulla di tutto questo dovesse realmente accadere, fa lo stesso. Grazie comunque, Paolo.
Vittorio Graziano
Via Ossi, 30 – Castelvetro di Modena (MO)
Tel. 059.799162
Da milanese verace approvo il pezzo, la cassoeula e il lambrusco. Certo che anche un franciacorta
Si, e magari anche un prosecco superiore…
@Massimiliano Montes, il franciacorta ci sta come del resto qualsiasi metodo classico, l’enosnob milanese mi punta dritto sullo Champagne. Però la tradizione si sposa meglio con qualcosa di più ruspante come una bonarda rifermentata dell’oltrepo’o una barbera frizzante del monferrato. Sul prosecco invece avrei dei dubbi.
@Mauro, Grazie Mauro, ma rivendicare la milanesità della caseula l’è ‘na bilutada 😉