Poiché Alessandro Dettori, con il quale ho parlato recentemente prima a Porto Torres e poi in cima alle sue vigne che cura insieme con il babbo e con il sostegno della mamma, mi ha espressamente detto che preferisce non scrivere più sui vari blog, ma usare piuttosto il poco tempo libero che gli rimane per girare il mondo a propagandare il “vino naturale” e a fare scuola di enologia mirata a produrlo bene, ho deciso di provare io a fare quel Manifesto che ci aspettavamo da lui.
Mi fa molto piacere aver parlato con Alessandro di questi temi, sui quali mi sono fatto un’idea forse approssimativa, ma solidamente ancorata, perciò sono contento del suo incoraggiamento a diffondere questo piccolo contributo che vorrei proporvi. Non sparate, però, sul pianista. Piuttosto aiutatelo a modificare in meglio lo spartito. Eccovelo:
Manifesto del “Vino Naturale”
Il fatto che non esista ancora una definizione comunemente accettata di “vino naturale” (e che sia meglio non scrivere questi termini in etichetta per evitare multe tanto assurde quanto elevate) provoca molte polemiche e incoraggia addirittura l’abuso sia del concetto sia del termine. Eppure sarebbe tanto semplice: il vino naturale è quello al quale non viene aggiunto né tolto nulla. Praticamente, quindi, soltanto succo fermentato d’uva, esattamente come si è sempre fatto per migliaia di anni.
Oggi, però, il vino naturale è soltanto una percentuale molto bassa della produzione mondiale. Come mai? La risposta è semplice: con la vinificazione naturale non c’è la certezza assoluta che tutte le volte la fermentazione s’inneschi spontaneamente né si può sapere quando lo farà e neppure quanto durerà. C’è sempre un rischio da correre, il cui risultato dipende dal sole, dalla terra, dall’attenzione massima del vignaiolo e del vinattiere nell’accompagnare il processo naturale senza forzarne l’esito.
Il cliente, però, acquista il vino in negozi e supermercati da cui pretende la garanzia di un prodotto stabile, anno dopo anno, sempre con quell’aroma e con quel gusto, perciò è molto più semplice accontentarlo intervenendo con processi chimici e fisici sempre più sofisticati per evitare appunto gli alti e i bassi che sono conseguenti alla naturalità. Le cantine che vivono di successi e di risultati commerciali ricorrono a tutto ciò che è concesso dalle leggi pur di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo: è normalissimo, per un’impresa.
Fare il vino in modo naturale, invece, è molto più difficile e non sempre il risultato premia lo sforzo, non sempre si riesce a soddisfare il desiderio di stabilità espresso dalla clientela. Questa è la differenza fondamentale.
Attualmente, comunque, sta aumentando sempre di più la clientela che auspica un ritorno al rispetto della natura, dell’ambiente e della salute, cioè sta ritornando sempre più in auge una filosofia di vita diversa da quella dei prodotti iniettati di sostanze chimiche che hanno ampiamente invaso i punti di vendita di massa e che hanno prodotto a un certo punto l’allontanamento dei clienti con il palato più fine dal bancone. Il gusto del bevitore sta ritornando al naturale, perciò nella produzione di vino è diventato fondamentale un pari approccio dell’agronomo e dell’enologo alla vinificazione naturale.
Poco importa se ci siano o no dei certificati, che alcune aziende ricercano soprattutto per scopi di marketing o per ottenere guadagni maggiori d’immagine e di valore aggiunto. È molto più importante, per me, che l’agronomo e l’enologo abbiano l’atteggiamento giusto e applichino l’essenza della produzione naturale, che vogliano fare le cose più giuste in quel senso. Per me la scritta “biologico” o “biodinamico” in etichetta ha un’importanza molto limitata, specialmente quando il controllato fa parte della stessa organizzazione del controllore.
1) Il ruolo dell’agronomo.
Nella coltivazione delle viti, per fare il vino naturale non si devono mai usare prodotti chimici sintetici come pesticidi, erbicidi, fungicidi, ma soltanto metodi naturali come la vendemmia verde e il diradamento del fogliame. Per proteggere la salute delle piante (che dovrebbe a sua volta influire sulla salute delle uve) si utilizzino piuttosto le sarchiature, le zappature, il sovescio, la vendemmia verde, il diradamento delle foglie, insomma gli interventi manuali, anche i fitofarmaci vegetali, oppure non si interferisca in vigna in nessun modo. Il processo di conversione del vigneto in ecologico o naturale può durare molti anni e soltanto in casi estremi, p. es. in annate storte, pur di non perdere il raccolto c’è chi usa da 3 a 5 litri per ettaro l’anno di miscela bordolese (solfato di rame e latte di calce).
Le uve, comunque, devono essere raccolte a mano, non a macchina.
La selezione manuale di grappoli e perfino di acini ben maturi e sani è infatti un passo fondamentale per la produzione di vino, che le macchine non sono in grado di fare, raccogliendo indistintamente tutti i frutti, anche immaturi e malati. L’agricoltura biologica e biodinamica è però soltanto il primo passo per la creazione di un vino naturale. Non tutte le uve coltivate biologicamente o biodinamicamente vengono poi trasformate in vini “naturali”.
2) Il ruolo dell’enologo.
Le uve vanno pigiate delicatamente (oppure non vanno pigiate per niente, se si sceglie la macerazione carbonica) e vanno lasciate in macerazione sulle bucce tutto il tempo sufficiente per stabilizzare il vino da invecchiare in bottiglia, anche nel caso delle uve bianche. Il periodo di macerazione dipende da molti fattori, come l’andamento dell’annata, il vitigno, il tipo di vino, eccetera. Il mosto dell’uva dovrebbe iniziare a fermentare grazie ai lieviti autoctoni naturali che sono presenti ovunque, anche sulle bucce delle uve sane, in vigna e in cantina. La fermentazione in presenza di lieviti naturali può durare più a lungo.
Nella vinificazione naturale non si devono mai usare i lieviti selezionati in laboratorio (oggi ce ne sono perfino alcuni che incrementano la produzione di anidride solforosa). La fermentazione dovrebbe avvenire senza la regolazione artificiale della temperatura, scegliendo il posto migliore per fermentare, dove la temperatura media è abbastanza stabile.
Poiché le bucce e i semi dell’uva sono ricchi di componenti nutritivi, non si hanno arresti di fermentazione e si può evitare l’aggiunta di conservanti. Se le uve sono sane, infatti, hanno già tutto quello che è necessario per “conservare” il vino imbottigliato. L’anidride solforosa aggiunta, inoltre, non consolida la salute del vino, ma lo sterilizza, lo uccide. Perfino senza l’aggiunta di anidride solforosa il vino contiene una certa quantità di solfiti prodotti naturalmente durante la fermentazione. Se si usa, però, un minimo di anidride solforosa (per esempio, in annate particolarmente deboli), durante la vinificazione non si deve usare nessun altro additivo.
Bisogna anche evitare le botti piccole e quelle tostature dei legni che possono influenzare il gusto del vino. Non è soltanto la dimensione, però, il fattore determinante; altrettanto importante è l’età delle botticelle. Una botticella da 200 litri, ma con un secolo di età, avrà uno scarso effetto sul gusto del vino (tranne che per lo scambio di ossigeno) e così sarà accettabile dal punto di vista dei “vini naturali”. Non ritengo che sia naturale un vino fermentato o maturato in barriques nuove. Si possono utilizzare contenitori alternativi per la fermentazione e la maturazione: vasche di cemento, anfore (sempre più popolari) o acciaio inox. Il vino naturale non si deve nemmeno chiarificare o filtrare prima dell’imbottigliamento. Il sedimento è un conservante naturale. Se non piace, basta lasciare la bottiglia per una notte in posizione verticale e quindi decantare il vino.
In Europa il settore “bio” è in rapida crescita, c’è sempre più gente che vuole vini e cibi organici, biologici, maggiormente naturali, sani, “verdi”, rispettosi dell’ambiente. L’Unione Europea ha fatto in fretta a regolare per legge anche questa tendenza. Per i regolamenti dell’Unione Europea il vino biologico è quello creato da uve coltivate in modo organico, concedendo l’uso moderato di alcuni prodotti chimici in vigna, poiché in alcune regioni più umide ci sono problemi con quelle muffe e quelle malattie fungine che senza questi interventi non si riuscirebbe a curare (ma allora ditelo: il vino “bio” lo si deve fare per forza dappertutto, magari anche in Siberia?). In ogni caso, questa definizione di vino biologico è alquanto semplificata e fin troppo concessiva, riguarda soltanto l’uva e non dice nulla sulla sua trasformazione in vino, che potrebbe dunque seguire l’iter di tutti gli altri vini, cui si concede l’uso di lieviti selezionati dai laboratori, di chiarificanti (alcuni di origine animale, perfino non vegetale, come il tuorlo d’uovo o la caseina) e di altri coadiuvanti enologici durante i processi di vinificazione e affinamento. Tutto questo demolisce qualsiasi possibile significato di “naturalità” che si voglia attribuire ai vini etichettati come “bio”. Il vino “bio”, così come la legge lo prevede, potrebbe non essere affatto naturale. Tra vini “bio” e vini “naturali”, dunque, c’è una notevole differenza.
Questo, almeno, dal punto di vista della legislazione, delle regole, delle certificazioni. C’è un altro aspetto, però, di cui si tiene conto in modo marginale, ma che è fondamentale, almeno secondo me. Non basta non aggiungere al vino qualcosa di estraneo per dire che è naturale. Al vino naturale, secondo me, è necessario aggiungere qualcosa: una gran bella dose d’amore. Per la terra, per la famiglia, per la gente, per la vita. La scienza e tutto il resto servono per evitare malattie, puzze, dubbie conservazioni, se ne usi perciò quel tanto che si dimostra necessario. Ciò che conta è l’essenza, un vino come segno d’amore, che sia degno cioè di esser benedetto per la sua purezza anche nel calice della Santa Messa come se fosse il sangue di Cristo. Si può. Si faccia.
Bravo Mario : “il vino naturale è quello al quale non viene aggiunto né tolto nulla”. Però a mio giudizio la certificazione biologica in vigna è fondamentale, così come dovrebbero essere effettuati controlli a campione sui prodotti prelevati a caso dagli scaffali dei negozi per verificare ulteriormente l’assenza di pesticidi. Il controllo della temperatura di fermentazione non mi pare una discriminante davvero fondamentale, così come la criomacerazione (senza utilizzo di gas e sostanze chimiche) non penso sia il demonio. Andrebbero invece vietati i trattamenti di temperatura che mirano a sterilizzare il prodotto anche senza arrivare alla pastorizzazione vera e propria. La barrique nuova sinceramente non mi spaventa e non ne farei un dramma anche se è vero che finirebbero per utilizzarle sempre e quasi esclusivamente le grandi aziende in grado di investire grandi capitali. L’obbligatorietà della macerazione sulle bucce nei bianchi non mi convince, a meno che non sia funzionale alla partenza della fermentazione. Per il resto, manifesto o meno, resto convinto che la retroetichetta con indicati ingredienti e processi rimane la soluzione più logica.
A me invece la barrique nuova proprio non piace. Diverse volte ho assaggiato in cantina lo stesso vino, da botte grande e da barrique (perché nella botte tutto non ci entrava).
Quello da barrique aveva invariabilmente sentori speziati, chiodo di garofano o cannella dipende la marca della barrique, e strani aromi di liquirizia.
Quello da botte grande invece equilibrato e perfetto (secondo il mio gusto, ovviamente).
Per la retroetichetta sono assolutamente e completamente daccordo con te! Ingredienti OBBLIGATORI per il vino!
@Massimiliano Montes, in effetti se non si deve aggiungere nulla, non si devono aggiungere neanche sentori estranei all’uva, ma propri di tostature mirate. In questo caso la barrique usata non sarebbe un problema, mentre quella nuova sì: un vino “naturale” che dipenda dalla tonnellerie di provenienza del legno della botte non lo potrei considererei certo “naturale”.
La vigna dev’essere sicuramente biologica. La certificazione e i prelievi di cui parli riguardano senza dubbio i vini “venduti”. Chi deve certificare, pero’? Ci sono tanti enti. Vanno bene tutti?
Sono d’accordo con cio’ che dici sul controllo della temperatura che non è proprio discriminante. Correggerò, anche perché il divieto di temperature sterilizzanti va davvero imposto. Sulla barrique nuova ho ripreso un concetto di Joseph Di Blasi (del blog vinosseur) e di Fedor Malik (Universita’ di Bratislava, facolta’ di Enologia), che in Polonia convincono molti. Poi ne ho parlato con Alberto Imazio a Ghemme. Anche lui ne usa due o tre, ma le ha comprate usate. Meglio usate (e i piccoli, se le vogliono proprio usare, le possono comprare a un prezzo inferiore dai grandi….).
Non ho parlato di “obbligo” di macerazione, ma di macerazione per il tempo sufficiente per stabilizzare il vino da invecchiare. Se non e’ da invecchiare, come quasi tutti i bianchi, non serve, o ne serve pochissima. Il tempo sufficiente, in questo caso, puo’ anche essere quei pochi minuti che occorrono per togliere le bucce dal mosto. Tutto sta all’abilita’ del produttore di vini naturali. Se e’ da invecchiare, dev’essere sufficiente.
Sulla questione degli “obblighi” in genere, penso che in questa fase siano da evitare in senso strettissimo, ma da suggerire. Lascerei la parola appunto ai maggiori produttori di vini naturali per precisare delle discriminanti. Tu, comunque, gia’ ne hai messa una (temperature) e ti ringrazio. Modifichero’ il testo in proposito. Grazie infinite!
Mi dispiace ma non sono d’accordo. E’ di un manifesto del vino naturale che il nostro Movimento ha bisogno? Cito il Papa Bergoglio che pochi giorni fà disse (più o meno): La Chiesa non deve fare proseliti, deve coinvolgere con l’esempio”. Ebbene anch’io penso che dobbiamo coinvolgere con l’esempio dell’etichetta trasparente tutti i produttori seri di Vino Naturale. Nell’ultimo anno nei vari incontri si sono confrontate due anime del Movimento: chi da una parte sostiene che la questione è culturale e si risolve con il proselitismo del Manifesto del vino naturale. E chi come me pensa che bisogna puntare sull’esempio positivo, sfruttando quelle “lacune” della legislazione che già oggi ci permettono di poter scrivere in etichetta solforosa totale , ingredienti e sintetica descrizione degli interventi in vigna e cantina.Chi sostiene che la questione è culturale (ma poi in etichetta scrive a lettere cubitali, Naturale, Vero, Biodinamico) in realtà vuole che nulla cambi per non perdere posizioni acquisite e per non dover affrontare un percorso verità. Non molto tempo fà ne parlai con Alessandro Dettori ed era d’accordo con me; spero lo sia ancora…
@emilio, se le anime del movimento fossero soltanto due ci farei la firma. Essendo un movimento, di anime ce ne sono tante, almeno quanti sono quelli che ci sono impegnati. E forse hai ragione tu a sostenere, come fa Cereda, che un’etichetta trasparente renderebbe tutto più concreto, sfruttando lacune legislative (ma per quanto ancora?). Ho provato (di cuore, non certo di cervello, perché quando ci si espone si fanno più nemici che amici, e chi me lo fa fare?) a mettere giù una bozza di manifesto d’intenti soltanto perché Alessandro ci ha rinunciato e non perché io ci creda. Se non ce n’è bisogno, tanto meglio .Vorrà dire che tutto va bene e sarei il primo ad esserne contento. Ma mi era sembrato che ce ne fosse bisogno e che Alessandro ci avesse rinunciato perché nell’ambiente del movimento ci sono troppi distinguo, troppa voglia di puntualizzare uno contro l’altro, troppi qui pro quo, troppi interessi da parte di enti certificatori bio diversi, insomma meglio non esporsi e andare a fare scuola sul campo. Io di espormi non ho timore, tanto non sono un produttore, ma un attento consumatore, ho usato infatti il paragone con il pianista che non è l’autore dello spartito, perciò ci ho provato. Ringrazio chi, come Cereda, mi ha fatto notare un punto importante e ringrazio te che hai le idee sicuramente più chiare delle mie. Ma se non dobbiamo fare proseliti e dobbiamo coinvolgere con l’esempio, proprio come fa papa Francesco, allora smettiamola proprio con tutte le polemiche che insorgono ogni volta sul tema, ma proprio tutte. E andiamo a ruota libera finché qualcun altro non farà una legge che sarà tutta il contrario di quella che vogliamo e che ci costringerà alla fin fine a bere l’acqua minerale, perché chiameranno vino qualcosa che assomiglia alle polverine dei kit (già in vendita dovunque) da mischiare alla damigiana per fare un Amarone o un Barolo. In Europa orientale, anche nei Paesi che fanno parte della UE e nella UE possono liberamente commerciare, girano già “vini” fatti con l’acqua e mosti concentrati rinvenuti, gasati artificialmente, con la pubblicità che dice che sono i migliori perché provengono dalle migliori acque NATURALI. Fra un po’ ve li trovate anche nel supermercato sotto casa. ne parlerò comunque a fine ottobre con Alessandro e se è il caso, chiederò a Massimiliano di togliere questo manifesto che mi sono sentito di proporre in assenza del suo, che non se l’è sentita di scrivere.
@Mario Crosta, Il tuo tentativo è lodevole soprattutto perchè disinteressato. E’ vero le anime del Movimento sono molteplici ed ognuna in questi anni ha cercato di stilare il PROPRIO manifesto del vino naturale; non riuscendoci! Nell’ulimo anno ci hanno provato un pò tutti i membri di Renaissance, e Alessandro è solo l’ultimo a gettare la spugna. Ma la mia domanda è : a cosa serve ora un manifesto del vino naturale? Non ti sembra un passo indietro rispetto allo stato dell’arte? Vale la pena perdere tempo ed energie per cercare il consenso di tutti i produttori e di tutti i gruppi, consenso che non verrà mai per tutti i distinguo che anche tu citi e conosci? A parer mio è importante in questo momento creare un nucleo di 10/15 produttori che utilizzino l’etichetta trasparente, ed insieme iniziare a fare degustazioni, serate, incontri dibattiti. L’emulazione forse farà il resto.
@emilio, stai tranquillo che non lo perdo proprio il mio tempo e neanche le mie energie. Ho soltanto fissato alcuni concetti che sono stati frutto di un po’ di interviste, nel golfo dell’Asinara e in Valsesia, per non perdermi nella definizione di un vino naturale. Non cerco nemmeno il consenso di tutti perché so benissimo che non ci sarà mai, in quanto il vino è sempre il frutto della simbiosi di tre componenti: sole, terra e genio del vignaiolo (e ogni vignaiolo è un genio per conto suo), neanche se ci fosse una legge che va bene a 99 su 100. Siamo sicuri che il torto sarebbe del 100esimo? Se questo canovaccio senza pretese di scientificità, ma ricco di aspettative, potrà servire, bene, sennò amen. Mi sono almeno divertito a confrontarmi con chi ne sa di certo più di me, mi sono arricchito già di tre pareri da tutti e tre i commentatori e adesso, grazie a voi tre, ho le idee più chiare. Su ciò che a parer tuo è più importante adesso sono d’accordissimo, ma lo sostiene anche Cereda, lo sostiene anche Massimiliano, è frutto di buonsenso e infatti Alessandro scrive nella retroetichetta i componenti dei suoi vini. Vogliamo fare della questione etichetta con i componenti una discriminante per definire il vino naturale in questa fase. Mi va anche bene, sebbene le discriminanti assolute mi danno sempre un po’ di perplessità: chi non imbottiglia, ma vende sfuso (e ce ne sono tanti), oppure regala qualche bottiglia senza etichette agli amici, che fa? Grazie dei tuoi preziosissimi appunti.
Totalmente d’accordo Mario con quanto scrivi. Inoltre mi ha molto colpito il passaggio:…”Per me la scritta “biologico” o “biodinamico” in etichetta ha un’importanza molto limitata, specialmente quando il controllato fa parte della stessa organizzazione del controllore.”
Le bottiglie del controllato vanno prelevate dallo scaffale, da organismi esterni. Purtroppo si sa come funzionano le certificazioni (molta carta bollata e burocrazia) e i controlli nel Belpaese.
Sì, lo diceva anche Cereda e sono d’accordo. Di scritte e di certificati ce ne sono quanto se ne vuole. Giusto che ci siano, ma che siano qualificati davvero, cioè applicati con la certezza delle analisi senza ombra di dubbio. Appartenere a un Istituto certificatore, cioè pagarlo per averne la tutela, non significa che la tutela sia la più indipendente. I campioni vanno prelevati da un altro organismo, dagli scaffali di merce esposta alla vendita. Nel caso delle vigne e dei terreni da analizzare per verificarne la corrispondenza bio è la stessa cosa. Non può essere l’istituto cui ha aderito il vignaiolo (pagando ovviamente una quota) a garantire per lui, ma un altro, assolutamente indipendente. A me importa, più della carta, che magari costa troppo per i piccoli produttori, il vero spirito della naturalezza sia davvero applicato nella sua completezza. E mi rode che le ASL abbiano un superpotere tale da rendere meno naturale un vino a seconda delle interpretazioni delle leggi sanitarie da parte di ciascun dirigente locale, sempre diverse da quelle degli altri. E’ un vino naturale quello che si fa in cantine con il controllo artificiale delle temperature e delle umidità, nelle cantine non a gravitazione ma con l’uso e l’abuso di pompe e sterilizzatori chimici di sintesi di pompe e tubi di trasporto da una botte all’altra fino all’imbottigliamento? E’ un vino naturale quello che non può più interagire con le muffe naturali alle pareti della cantina perché un coglione ha deciso che vanno verniciate con la vernice che fa comodo a lui (e magari venduta da un amico suo) per ragioni “igieniche”?
Mi spiace aggiungere altra carne al fuoco, ma la naturalità, che ha fatto innamorare uomini e donne per millenni, che si sono amati anche in assenza di acque per lavarsi tutti i giorni anche più di due volte al giorno, dentifrici, profumi e deodoranti annessi e connessi, può essere tale anche in presenza di simili ingerenze esterne, da parte di ASL per esempio, che ne stravolgono l’essenza?
Ho rinnovato oggi il testo del manifesto cercando di introdurre chiaramente le modifiche che tutti e tre mi avete gentilmente e amichevolmente proposto e di cui vi ringrazio. Il nuovo testo è nella pagina “Training” del mio sito sul web, con la data di oggi. Se ci fosse qualcos’altro, proponetemelo. Ve ne ringrazio in anticipo. Vedrò Alessandro il 27 e ne parleremo ancora.