Il canone 924 del Codice di Diritto Canonico dispone che per le celebrazioni liturgiche, “Vinum debet esse naturale de genimine vitis et non corruptum” ossia proveniente dalla vite e non sofisticato.
Lo so, ridurci a citare il Codice Canonico può sembrare una sorta di ultima spiaggia, ma non è così. Semmai è ironico che già il Codice Pio-Benedettino del 1917 definiva chiaramente il vino naturale ed oggi, laici, agnostici ed atei, litighino sul significato di questa definizione.
E’ interessante leggere anche l’interpretazione che del canone 924 fornisce il “Pontificium consilium codicis iuris canonici authentice interpretando” oggi Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi: “Il vino utilizzato nella celebrazione del santo sacrificio eucaristico deve essere naturale, del frutto della vite, genuino, non alterato, né commisto a sostanze estranee. (…) Con la massima cura si badi che il vino destinato all’Eucaristia sia conservato in perfetto stato e non diventi aceto”.
Quindi talune interpretazione che volevano la definizione di “naturale” come “senza difetti o spunti acetici” è smentita. Il “naturale” è riferito al processo produttivo del vino: non commisto a sostanze estranee. Infatti il vino da Messa viene acquistato solo da produttori riconosciuti e certificati dal Vaticano.
Per concludere, suscita un sorriso il finale dell’interpretazione pontificia: “Non si ammetta, poi, nessun pretesto a favore di altre bevande di qualsiasi genere, che non costituiscono materia valida”: niente coca-cola durante la messa.
Ironico, certo, ma il fatto che si puntualizzi “non sofisticato” indica quanto la cosa fosse già nota e probabilmente di ampio uso.
@Nic Marsél, nel libro che sto scrivendo sulla vita di Don Mario Crenna ho già scritto il capitolo sul suo rapporto con il vino e parlo appunto del codice canonico in modo più esteso di quello che ha fatto Massimiliano. ve ne riporto un passo (è un’anteprima solo ed esclusivamente per voi!).
“Vinum debet esse naturale de gemine vite et non corruptum”, così prescrive il canone 924 del Codice di Diritto canonico: il vino usato durante la Santa Messa deve essere naturale, frutto della vite e non alterato.
«Rosso o bianco?», gli chiesi una volta, visto che il sangue di Cristo non poteva certo essere di un colore diverso dal nostro, ma quando avevo fatto il chierichetto non mi era mai capitato di versare dall’ampollina altro che dei profumatissimi vini dorati da uve Moscato. Il Don era chiaro in tutte le risposte che dava agli alunni e ci spiegava che il Diritto Canonico non si fossilizza sul colore del vino e non impone nemmeno determinati vitigni.
Anticamente il vino da Messa era sicuramente rosso, proprio per ricordare il sangue di Cristo al quale la liturgia si richiama e nel rito della Chiesa orientale è rosso ancora oggi. Soltanto nel 1565, con il primo Sinodo di Milano, riconoscendo che il vino rosso può macchiare in modo un po’ troppo evidente i paramenti e gli arredi sacri bianchi, dalle tovaglie di lino o di canapa dell’altare fino al corredo di corporale, manutergio, palla, purificatoio e altri parati, venne autorizzato l’uso preferenziale di quello bianco. Così non ci sarebbero stati problemi se il sacerdote o il chierichetto ne avessero fatto gocciolare un po’ durante il sacrificio eucaristico.
Come ci diceva il Don, il vero problema è la produzione, che può essere fatta in vigneti e cantine gestiti da uomini e/o da ordini religiosi oppure da produttori laici, nel qual caso però si deve avere l’autorizzazione preventiva del Vicario foraneo e sottostare ai dettami del Diritto Canonico, con tanto d’imprimatur timbrato dalla Curia. Domanda “da cinque milioni” di un ex-allievo che scrive di vino da anni sul Web (perciò non ne rivelo il nome): «Un vino perfettamente naturale e non “corrotto”, non manipolato, non alterato, non commisto a sostanze estranee, del tutto puro?». Il Don rideva di gusto, perché capiva anche l’idealismo, ma faceva sempre i conti con la realtà della terra e della vinificazione, che non è un processo naturale della fermentazione dell’uva, ma avviene per intervento del genio dell’uomo che ne contrasta l’acidificazione conseguente all’ossigenazione della polpa, quella che inizia già negli acini che si rompono in cassetta durante la vendemmia e nei mosti torchiati anche nel modo più soffice che si possa usare.
Questo intervento del genio dell’uomo, in questo caso il suo, non era poi così facile da definire allora e non lo è neanche oggi. Il concetto sulla carta è chiarissimo, eloquente, ma come sapeva perfettamente anche il Don che un po’ di enologia doveva pur masticarla, non era per niente semplice da mettere in pratica, infatti ci raccontava che nel corso della storia le più disparate Congregazioni Vaticane hanno puntualizzato posizioni differenti.
Anche i vini migliori delle suorine più innocenti e scrupolosamente innamorate di Cristo si esprimevano al meglio soltanto nei primi mesi dopo la vendemmia, a volte fino a Pasqua, ma più in là cominciavano a perdere freschezza e il loro sapore diventava acescente, stucchevole, putrido, soprattutto nelle chiesette dove officiava un solo prete, per giunta povero, e una volta stappata una bottiglia che costava una bella botta ci volevano magari anche due settimane prima di consumarla tutta, senza riuscire sempre a conservarla in modo ideale, specialmente d’estate. E il Diritto canonico ha sempre imposto, giustamente, che il vino scadente, scaduto, non venisse assolutamente usato per officiare la Santa Messa.
In certe annate storte il Don, per non buttar via quel vino dal cagionevole stato di salute a causa di un livello insoddisfacente di alcool, andava a comprarsi un po’ di bisolfito e, facendosi il segno della croce, un minimo glielo dava. Anche per l’uva usava l’accortezza del saggio, al massimo un po’ di poltiglia bordolese se vedeva insorgere malattie, ma riduceva all’osso le irrorazioni, stando sempre attento al decorso delle malattie per non doverne usare più del necessario.
@Mario Crosta, Grazie Mario, come al solito ne sai una più del diavolo 🙂
@Nic Marsél, 🙂
@Mario Crosta, “frutto della vite e del lavoro dell’uomo”. Dall’etichetta Martinez che ho messo in copertina.
@Massimiliano Montes, perfetto. Bella etichetta. Alessandro ha nel frattempo inventato una sua definizione per questa tipologia di vino, ma non posso rivelarla. Lo farà lui a tempo e debito. Non rubo le idee agli altri. Posso dire che si potrà tranquillamente scriverla in etichetta senza incorrere in sanzioni e che è altrettanto bella ed esaustiva come questa frase.
…rivoluzionario
Ci possono stare anche i solfiti, che tanto durante la consacrazione lo zolfo svanisce?
@Rolando, e se non svanisce è un problema! Gli facciamo consacrare qualche altro vino prima di berlo? 🙂
@Massimiliano Montes, adesso capisco quell’aroma d’incenso nel Pascale…
Il Vino per la Messa NON DEVE CONTENERE SOLFITI (Bisolfiti). Perche` deve essere genuino, vedere le disposizioni del codice di diritto canonico.
@giuseppe, zolfo=inferno 😉