La denominazione è il primo criterio di scelta dei consumatori d’oltralpe secondo uno studio dell’Agenzia Bebetter commissionato dai produttori della Loira. Il vitigno e le varietà invece non rientrano tra le motivazioni d’acquisto.
Interessante il risultato di questa piccola intervista condotta su un campione di 964 consumatori. In un paese enologicamente evoluto, ed economicamente stabile, come la Francia, l’acquirente non compra Cabernet Sauvignon o Syrah, ma un vino proveniente da uno specifico territorio, da una precisa denominazione.
Sarebbe come dire che in Italia al pubblico non interessa il Nero d’Avola, l’Aglianico, il Sangiovese o il Nebbiolo, ma che si orienta esclusivamente all’acquisto in base al territorio di provenienza. Quindi Barolo piuttosto che Brunello di Montalcino o Amarone della Valpolicella.
Questo è un meccanismo virtuoso di blindatura delle vendite nazionali e di fidelizzazione della clientela. Al pubblico poco importa di sapere che nella bottiglia c’è vino fatto con uve Corvina (o Corvinone) e Rondinella: sta acquistando semplicemente un Amarone. Magari la massa non conosce neppure le uve con cui è prodotto.
Il mercato francese è storicamente orientato in questa direzione. Le scelte sul vino da bere sono tra Puilly-Fumé e Sancerre, Bordeaux e Borgogna, o tra singoli territori e cru. Non si parla di vitigni, se non in una fase successiva di approfondimento.
I vantaggi sono che la denominazione non è copiabile dal mercato internazionale. Chiunque può impiantare Cabernet Sauvignon, nessuno può fare un Bordeaux.
Le successive motivazioni di scelta rilevate dall’analisi statistica sono, in ordine: la regione di produzione, il prezzo e l’annata.
Forse potremmo recepire il suggerimento degli esperti cugini transalpini, e cercare di modificare inutili Doc che includono ampie estensioni territoriali, come la Doc Sicilia, in qualcosa di più simile al modello Borgognotto. In Borgogna c’è una denominazione regionale, Bourgogne, che include denominazioni di territori comunali, i Village, e denominazioni di singoli Cru, i vigneti, suddivisi in Premier Cru e, all’apice qualitativo, Grand Cru.
Immagino una denominazione generica “Sicilia”, all’interno della quale sono delimitate denominzioni comunali o contrade (equivalenti alla denominazione “Village” borgognotta), e indicati i singoli vigneti (i nostri Cru). Un sogno ad occhi aperti?
Fonte dello studio dell’Agenzia Bebetter: winenews
Credo che in Francia, diversamente che da noi, i vari territori identifichino i vitigni.
In sostanza scegliendo un territorio, si scelgono automaticamente precisi vitigni e non altri.
In Italia c’è una bio diversità ampelografica unica al mondo.
Credo che questa sia una ricchezza per noi.
Non so se ci conviene adeguarci ad altri sistemi di classificazione vigenti rischiando di disperderla o invece spingere ancora di più sulla valorizzazione di tale ricchezza ampelografica.
Io credo nella seconda opzione.
Purchè però i territori, i comprensori, le doc, si convincano della necessità di fare squadra per andare in modo univoco sul mercato; con marchi, consorzi, associazioni od altro, che ne facciano sintesi d’immagine, ma non di sostanza.
@Rinaldo, a occhio e croce non credo… In Bordeaux non c’è un solo vitigno. Persino in Borgogna, dove il rosso è solo Pinot Noir ed il bianco al 90% Chardonnay, si usano le denominazioni. Il consumatore francese acquista un Mersault o uno Chabils, non uno Chardonnay.
Avevo scritto qualcosa di simile qui:
http://gustodivino.it/home-gusto-vino/perche-i-francesi-non-si-preoccupano-se-tutto-il-mondo-coltiva-chardonnay-e-pinot-noir-2/edith-di-salvo/5106/
Sinceramente credo indicare il territorio puttosto che il vitigno che sia l’unica carta vincente a livello commerciale. Non puoi competere con un mercato internazionale che ha svilito la qualità e i prezzi delle varietà più note.