Graffiti di Sardegna: Pratobello

Questo è un blog di smaliziati, lo so, perciò spero che vadano subito tutti quanti a scrivere Pratobello in un motore di ricerca o su Youtube, così troveranno tutto il materiale fotografico e video su quella indimenticabile mobilitazione popolare vincente degli Orgolesi per difendere la propria terra dalle servitù militari e per entrare almeno nell’atmosfera di ciò che sto per scrivere sulla tastiera con la mano destra, mentre la sinistra regge un bicchiere (non un calice, no, no, ma proprio un bicchiere… per giunta riciclato dalla nutella) di Malvasia sempre pieno e sempre vuoto.

Datemi retta, specialmente voi che non lo conoscete. Il vino ottenuto da uve malvasia non dà alla testa, non ci si accorge nemmeno di aver superato il limite quando i solfiti che contiene sono soltanto quelli naturali, quelli contenuti all’interno delle pareti cellulari dei lieviti e che al termine della fermentazione si depositano sul fondo, si sfaldano e diventano molto volatili; taglia invece le gambe e non ci sono santi che tengano, infatti manda tutti a casa in carriola senza tanti complimenti, in uno stato irripetibile di beatitudine altrimenti sconosciuta!
È un vino antico e diffuso in tutto il mediterraneo, talmente fuori di moda che corrisponde in pieno all’ambiente che lo circonda, specialmente in provincia di Nuoro, dove regna un paesaggio fatto di lunghe distanze e di grandi silenzi. Se si eccettuano le coste di qua e di là dell’isola, gran parte dell’interno sembrerebbe essere rimasta pressoché immutata nel tempo ed è proprio per questo che affascina.

Tutto qui sembra essere sospeso. Fra i pascoli attraversati dalle greggi ci sono ancora centinaia degli ottomila nuraghe della Sardegna, le montagne sono disseminate di ovili e di “pinnettas”, cioè i tradizionali capanni costruiti in luoghi appartati e integrati con l’ambiente circostante, là dove l’uomo era in perfetta simbiosi con la natura e non la dominava, semmai l’abbracciava. Adesso però il pastore preferisce la casetta costruita con i blocchetti di cemento e di pomice, ha cominciato a fare i conti con le nuove esigenze e le trasformazioni economiche e sociali.
Da un lato il bisogno di sopravvivere nella modernità lo ha spinto a industrializzarsi, lo ha costretto a far crescere l’ovile come una vera e propria fattoria, ma senza averne la mentalità, scontrandosi sempre con la burocrazia sanitaria e fiscale, oppure cercando spazi di libertà ormai ridotti al lumicino dalle recinzioni dei petrolchimici, dei resort turistici e dei latifondi. Dall’altro era stufo di non riuscire a riposare nemmeno quand’erano di turno i figli, perché gli capitava sempre più spesso di doversi muovere per cercarli in qualche discoteca o in qualche circolo dove andavano a rifugiarsi con i coetanei dopo aver lasciato le bestie in custodia ai cani.

Esistono ancora, per sua fortuna, i luoghi dei lunghi silenzi, come i supramonti di Oliena, Orgòsolo e Baunéi, le Barbagie Ollolai, Belvì e Séulo, il Mandolisài, i massicci del Gennargentu, del Gocéano, di Alà dei Sardi e di Lula, dove l’uomo costruisce il suo “pinnettu” soltanto se necessario, ormai, visto che è abbondantemente motorizzato e in genere dove può vedere senza essere visto.
Il pastore o il capraio vi custodiscono il formaggio e il porcaro vi rinchiude i maiali che di giorno pascolano bradi. Il mandriano, invece, vaga con le sue bestie, mucche o cavalli, da un un pascolo all’altro, dormendo dove può: sotto un macchione, nell’antro di una caverna o dentro la carcassa di un’auto abbandonata. Il vignaiolo è considerato ancora il più fortunato di tutti: è stanziale, ma proprio per questo sta costantemente sotto il tiro di tutti gli scribi e farisei, di ufficiali giudiziari e cartelle fiscali.

Negli anni ’60 e ’70 scoppiò il finimondo: decine di migliaia di operai entrarono nelle fabbriche chimiche, tessili e cartarie di Ottana, Arbatax, Macomer, Porto Torres e altre decine di migliaia furono assorbiti dai trasporti e dai servizi anche turistico-alberghieri. Erano pastori o figli di pastori, passati in pochi mesi da una cultura quasi nuragica a un’altra completamente diversa. Il millenario immobilismo barbaricino venne scosso in modo deciso. In pochi anni è cambiato il modo di pensare e di vivere; sono state trasformate le abitazioni, gli abiti, le feste, le canzoni popolari, le abitudini alimentari, i riferimenti sociali, il modo di viaggiare, mentre il jeans ha sostituito il velluto, il fustagno e l’orbace.
La famiglia patriarcale e quella matriarcale che ancora sopravvivevano nello zone più antiche non erano più compatibili in una società che assumeva caratteristiche e ritmi di vita secondo i nuovi modelli industriali.

Se prima il centro dell’interesse dell’uomo era costituito dal gregge, dall’ovile, dalla mandria, dalla vigna, dalla campagna e il paese era soltanto il luogo dove dormivano sua moglie e i suoi figli, da quel momento diventò interesse predominante la casa nel villaggio e anche questa doveva essere completamente diversa da quella tradizionale (che era spartana, con un camino e un bugliolo), cioè doveva arricchirsi di balconi, salotti, due o tre bagni e camere fatte soltanto per dormire, non più per poterci anche essiccare formaggi e insaccati.
L’uomo non valeva più per il numero di capi di bestiame posseduti, ma per le nuove comodità che era in grado di assicurare alla famiglia. Una rivoluzione che ha influito anche sulla trasformazione del paesaggio. L’uomo ha cessato d’integrarsi perfettamente con la natura, diventando un cittadino che piuttosto ne sa sfruttare invece le risorse a qualsiasi costo. Iniziò il taglio dissennato dei boschi, i figli dei paesani abbandonarono la terra per riversarsi dietro i comodi sportelli degli Enti pubblici, i figli dei pastori cercarono un avvenire da operai. La terra e  le colline, fino ad allora intensamente coltivate con orti e frutteti che si alternavano agli oliveti e alle vigne, sono diventate brulle sia nelle sterminate aree comunali e demaniali sia nelle grandi tanche private. Non si dissodava più e il cisto, il lentisco, il corbezzolo e tutti i cespugli della macchia mediterranea sono tornati a occupare i campi.
Si sono moltiplicati in modo esponenziale gli incendi (dolosi al 98%) che hanno devastato decine di migliaia di ettari di bosco e di macchia mediterranea, avviando un processo di desertificazione con danni incalcolabili, lo spopolamento delle campagne, l’emigrazione verso le città.

Niente paura. Quest’illusione adesso è finita. Le città della costa sono in crisi, mentre nelle Barbagie e nei supramonti sopravvivono quegli squarci di mondo antico che ricordano alla nuova e disorientata Sardegna i suoi legami con un passato più sereno e con una società rurale in simbiosi con la natura, valori che non sono mai morti anche se gli antichi sentieri sono risucchiati dalla boscaglia, le fontane in pietra nera vengono incanalate nei tubi di plastica e per costruire le capanne invece delle frasche si usano lamiere ondulate di metallo o vetroresina. In realtà, infatti, la qualità della vita del pastore, del contadino e del vignaiolo non è sostanzialmente mutata. Ora viaggiano in fuoristrada robusti anziché a cavallo o su vecchi motorini, ma continuano a faticare in una campagna sempre più difficile.
Si possono ammirare ancora i costumi tipici, gustare cibi genuini, trovare i prodotti più autentici, esplorare zone incontaminate e selvagge. I ristoranti non hanno mai abbandonato la cucina tradizionale, le antiche ricette non sono mai state riscoperte ma sempre e soltanto riproposte con gli stessi ingredienti delle massaie di una volta in un assortimento dove ha sempre regnato soltanto il sapore naturale di carni, pesci e formaggi e dove non manca mai un boccione di Cannonau.

Non ignoro di certo che tra Doc e Docg siamo già a 20 disciplinari, ma che ce ne facciamo di contenitori burocratici buoni per tutto e per il contrario di tutto quando il solo vitigno Cannonau dà perlomeno un centinaio di vini completamente differenti fra loro? Differenti, gente, lo ripeto e lo sottolineo. Diversi sul serio, mica soltanto per l’etichetta! I vini naturali non hanno i sapori e gli aromi omologati e mostrano tutte le differenze che derivano dal proprio territorio e dal suo microclima Chi non ha ancora capito cos’è la biodiversità, cos’è la ricchezza di sapori e di profumi che la biodiversità elargisce a piene mani… che cos’aspetta a venire in Sardegna?
Troverà alcuni vini stupendi nelle enoteche e qualcuno anche nei supermercati. Ma troverà pure una serie di vini sfusi, fatti dal parente che li ospita oppure dal vicino o da un amico, messi in bottiglioni di plastica o in taniche se proprio non si riesce a recuperare qualcosa di vetro, alcuni magari imbevibili, ma in gran parte gustosi e certamente qualcuno anche eccelso. Dagli imbevibili ci si può difendere, basta berne poco e versare il bicchiere nel primo vaso di gerani che capita a tiro. Ma gli eccelsi valgono la pena. Ci si ricorderà di loro fino alla fine della vita. Provare per credere.

 

8 thoughts on “Graffiti di Sardegna: Pratobello

  1. Massimiliano Montes

    Caro Mario, i tuoi incantevoli racconti sembrano uscire da una lanterna magica.
    Progresso. Parola strana che già etimologicamente implica l’idea di un avanzamento.
    Il progresso ci deve essere, altrimenti saremmo ancora all’età della pietra. E non ho sinceramente nostalgia di stenti, fatica, morte e una sopravvivenza media non superiore ai 25 anni.
    Il progresso non va confuso con un’evoluzione predatoria, travolgente, virale, che spazza via tutto quello che tocca.
    Il progresso va guidato, arginato. Come un fiume, per prestabilirne il percorso e impedirgli di allagare le città. Traendo il meglio e lasciando il resto. Questo secondo me è progresso.
    Fin’ora le nostre società si sono evolute in maniera meccanicistica, senza un’orizzonte etico.
    Forse… dovremmo iniziare a parlare di “architettura sociale”. Forse ci vogliono menti e cuori che indichino gli argini da non oltrepassare, e gli orizzonti etici verso cui muoversi.

    Bevvi la Malvasia di Bosa dello Tziu Battista Columbu dopo aver visto il film Mondovino di Jonathan Nossiter. Ne rimasi stregato, aveva una dolcezza e delle note balsamiche inaspettate.
    Purtroppo dall’anno scorso Battista Columbu non c’è più. Continua la tradizione di famiglia la figlia Angiola.
    Non conosco altre Malvasie sarde… ahimé

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  2. Mario Crosta

    Pensa che io ne maltrattai severamente una, di quelle di Columbu, ma cosi male che peggio non si poteva. ne ho riempito una borraccetta di vetro rivestita di pelle intrecciata bianca, rossa e blu, di quelle che si comprano per ricordo. Poi ho messo un chiodo sulla parete del salotto e ce l’ho lasciata per 9 anni, tappata con un tappino di gomma e il suo bel rivestimento in pelle. A luglio 39 gradi, d’inverno mai meno di 22, televisione a non finire, tram sotto casa e perciò vibrazioni avvertibili. Un giorno su una colomba pasquale non avevo niente da bere (a me non piacevano proprio i vini dolci, non ne tenevo in cantina, in ogni caso allora non avevo nemmeno tokaji e non c’erano in giro né vendemmie tardive né ice-wine), tutti i negozi chiusi: tirai giù dalla parte la boccetta e la stappai, pensando che l’avrei rovesciata nel lavandino, mal che andasse, riappendendola vuota .
    Apriti cielo!!!! Ma che buona!!!! Addirittura più buona di quando l’avevo bevuta, non appena comprata. Ha sfidato l’impossibile, quel vino e devo togliermi tanto di cappello, anche perché ha dimostrato che tutte le certezze che abbiamo (conservare le bottiglie in orizzontale, in cantine fredde, lontano da odori e rumori, per esempio) cascano dal piedistallo in presenza di vini migliori di noi stessi, con una personalità che gli deriva dalle cure amorose di gente come Columbu, appunto. Credo che siano proprio questi vini a mettere loro alla prova le nostre capacità e siano loro a giudicarci, non viceversa. E tu che sei siciliano e ti trovi nella terra degli insuperabili Marsala puoi ben capire quello che ho appena scritto. Ecco, quella Malvasia del nuorese (Bosa è in provincia di Nuoro, anche se sta sotto capo Marargiu) è di quella stirpe lì, ma senza alcool aggiunto come avviene invece per i Marsala, per via del clima troppo caldo delle cantine trapanesi. Ti auguro di berne altre, ma, come avrai notato, non soltanto quelle imbottigliate ed esposte nelle enoteche. È un mondo che ti si aprirà e ti farà sognare.

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    1. Angiola Columbu

      @Mario Crosta,
      Salve, ho letto stammatina il suo bellissimo articolo, segnalatomi dal suo amico Massimiliano. Mio padre sarebbe stato felicissimo di leggere il suo racconto che assomiglia tanto a quelli che lui a noi ha sempre descritto e spesso raccolto in più libri, un ultimo in particolare sulla sua terra natia, la Barbagia appunto, dedicato ad Olzai. E’ stato l’ultimo suo scritto finito qualche mese prima che si ammalasse e portato a termine con fatica e speranza di vederlo pubblicato prima della sua morte….non siamo ancora riusciti ad accontentarlo nel suo ultimo desiderio, ma speriamo di farlo presto. Riguardo a quel che dice sulla nostra malvasia, quello che è successo non mi meraviglia, visto che l’innamoramento di mio padre per questo vino, è avvenuto in qualche modo in maniera simile….negli anni ’70 trovò nello sgombero di una cantina del centro storico una bottiglia vecchia di quasi 100 anni…e lui racconta che quando la stappò il profumo inebriò tutta la via…senza contare quello che provò il suo palato nel gustarla….da allora ebbe il chiodo fisso di voler ridare a quel vino quasi dimenticato la giusta dignità e identità…studiò per lunghi anni avidamente tutto ciò che gli serviva per poter lui stesso coltivare il vitigno che l’aveva prodotto, e non appena ebbe la possibilità acquistò il terreno giusto per quella pianta così preziosa…tutto il resto oramai è storia…che penso lei conosca bene…La ringrazio comunque per le belle parole e per aver così ben descritto un bel momento, reso “magico” anche dal nostro umile ma significativo vino…Con profonda stima Angiola Columbu

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      1. Mario Crosta

        @ cara Angiola Columbu, giuro che il suo commento mi ha fatto venire una lacrima. Non ho parole per descriverle quanto sento il calore del suo sentimento nelle parole che lei ha scritto. Un dono che evidentemente le viene appunto da suo padre, che riposi in pace, che ha fatto tanto mentre era quaggiù, tra cui appunto dimostrare al mondo che le chiacchiere sui vini saranno anche una gran bella cosa, ma certi vini, come i suoi, seguono un’altra legge, quella dell’amore per la propria terra, la propria famiglia, la propria gente e perciò a volte li si gusta in silenzio, guardandosi negli occhi, godendosi la beatitudine in quei sorsi di vita. Sapevo che la cucina è un atto d’amore, per questo siamo innamorati delle pietanze della mamma, della nonna, della zia. Battista Columbu mi ha dimostrato che coltivare la vigna e fare il vino è un atto d’amore anch’esso e lui è stato capace di amare moltissimo, visti i vini che ha fatto. Le auguro di riuscire a trasmettere questo concetto, questa ragione di vita, a chi ne berrà. Ha dato una parte di se stesso a tutti quelli che bevono i suoi vini e vivrà in noi in eterno.

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  3. Anna

    Mario carissimo, sarò monotona, ma ancora una volta hai dipinto con pennellate da vero artista, e contemporaneamente hai sottolineato problemi e situazioni difficili. Sul progresso sono perfettamente d’accordo con Massimiliano Montes. Va guidato e arginato dal buon senso.
    E a proposito di vini sfusi… in questo momento mi sto versando in un comunissimo bicchiere di vetro un morbidissimo (non so se lo si può dire di un vino, ma -come sai- sono analfabeta in questo campo) Cannonau che Pino di Sorso (lo conosci anche tu) mi ha portato dentro una bottiglia di plastica della superfamosa acqua Smeraldina… se vuoi favorire…

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  4. Mario Crosta

    Se è lo stesso vino rosso che Pino normalmente beve sui gamberi al forno preparati da Maria, beata te! Un rosso adatto ai crostacei (che sono rossi anch’essi, con la polpa rosa), un abbinamento che una volta faceva scandalo e sul quale mi sono battuto fin dal 1980, con la soddisfazione di un grande pranzo organizzato al Gallia di Milano qualche tempo dopo, grazie anche a Piero Antinori e con un incoraggiamento di Luigi Veronelli. Sul progresso: sono con te e con Massimiliano nel desiderare fortemente il progresso, che è sempre guidato e arginato dal buonsenso, altrimenti non è progresso e diventa barbarie.

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  5. Nic Marsél

    Sui bottiglioni di Cannonau fatto in casa hai ragione da vendere. Nella mia piccola esperienza ho trovato vini davvero interessantissimi che si sfilano dagli stereotipi dei prodotti che arrivano in commercio in continente. Il problema è quando incontri quello imbevibile, che ovviamente ti viene prima offerto a tavola e poi regalato (magari in dama da 5 litri) : questa gente è particolarmente suscettibile 😉

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    1. Mario Crosta

      @Nic Marsél, nel corso delle tue esperienze con le tavolate sarde naturali, magari anche piccole però intense, non ti è mai capitato di vederti offrire in tavola un formaggio che cammina, che salta, che si muove contorcendosi, insomma che non sta mai fermo perché… lo sai benissimo a cosa alludo, ma non lo posso scrivere, in quanto ci leggono anche persone dallo stomaco debole. Eppure buonissimo! Basta chiudere gli occhi e non guardare quel che dal cucchiaino si scioglie in bocca. Anche lì si rischia di urtare, rifiutando un boccone prelibatissimo del genere, la suscettibilità del pastore.
      In ogni caso gli antichi romani correggevano i vini (cattivi) con il miele e con il liquido di scolatura delle alici salate, per non urtare la suscettibilità di nessuno, li portavano a casa e li usavano comunque così, anche soltanto per il fatto che un po’ di rispetto per il lavoro e la fatica altrui non fa mai male nemmeno in presenza di risultati discutibili. Io con i vini naturali non proprio buoni ci facevo la sapa, il mosto cotto, il ripieno di molti dolci. La natura a volte fa i capricci e il vino naturale ne risente maggiormente, sono incidenti di percorso che possono capitare. Non tutti sono dei Battista Columbu.
      Il Cannonau, poi (che sarebbe il clone sardo della Grenache, della Garnacha, del Tocai rosso) è un vitigno che è molto difficile da imbrigliare, perché raggiunge da solo (e spesso supera) delle gradazioni alcoliche impensate altrove, sfuggendo dalle mani del vignaiolo e sconvolgendo il buon rapporto con l’acidità e la maturazione fenolica. Andrebbe introdotta la doppia maturazione ragionata (il prof. Cargnello dell’Istituto Superiore di Conegliano la spiega a tutti i suoi allievi e agli ospiti), perché l’irrigazione di soccorso ha ben poco da fare dove manca l’acqua perfino per non far morire le bestie, come accade spesso in Sardegna. Ma penso che gli enologi sardi avrebbero anche ben altri suggerimenti da dare, per esempio sulle ombreggiature, la superficie fogliare, l’uso degli alberi d’alto fusto qua e là per ombreggiare un po’ in certe ore di esposizione solare asfissiante, insomma col Cannonau c’è molto, ma molto da fare e vale la pena di farlo in modo naturale.
      Ci sono esperimenti in corso in Venezia Giulia su vitigni autoctoni giuliani, dove la facoltà di enologia dell’Università e il conte Alberto d’Attimis-Maniago stanno conducendo da anni esperimenti congiunti sulla naturalità totale, parziale, percentuale, ma secondo me anche a Sassari e Cagliari dovrebbero fare lo stesso con i vitigni autoctoni sardi..

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