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Il vino ai tempi dei Romani

Pubblicato il 18 Settembre 2014


di Massimiliano Montes 16 commenti

Attenzione a pensare che un salto nel passato significa necessariamente vino naturale come lo intendiamo noi oggi. Pur essendo grandi intenditori, i Romani il vino lo trattavano non proprio bene.

Dal miele, all’acqua di mare, alle ostriche tritate, al gesso, ai petali di fiori, alla pece. Erano tanti gli ingredienti con cui il vino poteva essere “sofisticato”.

L’origine della viticoltura romana è antica, ha radici soprattutto autoctone, poi etrusche e in misura minore greche. Probabilmente però dai Greci i Romani impararono tecniche di coltivazione più sofisticate.

“E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni della vita placano gli animi.”
Lucrezio

Le origini del vino nell’antica Roma

Fino all’epoca Repubblicana il vino poteva essere gustato solo dai maschi di età superiore ai trent’anni. Per le donne erano guai se beccate a bere: se baciando la moglie il marito percepiva sapore di vino, era autorizzato a punire severamente la consorte per la “trasgressione”.

Il divieto venne abolito da Gulio Cesare, e così Livia, moglie del primo Principe, Augusto, potè scrivere di aver raggiunto una notevole e sana vecchiezza grazie al vino che aveva allietato i suoi pasti.

L’Italia venne definita da Sofocle (V sec. a.c.) “terra prediletta dal Dio Bacco”.  Diodoro Siculo sosteneva che la vite da noi cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.

I Romani avevano una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione e della vinificazione. Avevano appreso tali segreti da Etruschi, Greci e Cartaginesi e, proprio da questi ultimi, impararono a costruire aziende agricole razionali e capaci di produrre, con grandi guadagni. I Romani avevano il senso del business, tutto doveva essere organizzato e produttivo.

Vennero così create piantagioni specializzate a conduzione schiavile, ove si coltivarono i grandi vini del passato.

Tra questi, dall’omonima area della Campania, presto si distinse il vinum Falernum: il miracolo non fu solo opera dell’uomo, ma anche per i terreni alle pedici dei monti Petrino e Massico, un prezioso miscuglio mineralogico, con rocce ignee, calcaree e sedimentarie. I Romani furono capaci di creare terrazzamenti drenanti, in grado di conservare la giusta dose di umidità e calore, da cui produssero tre famose qualità di vino.

Da uno di questi terrazzamenti antichi, alle pendici del Massico, proviene una delle più interessanti scoperte archeologiche, fatta negli ultimi anni del secolo scorso, che ha restituito le tracce fossili di un vigneto d’età imperiale.

La scoperta, avvenuta nei lavori di sbancamento per la costruzione della strada Panoramica  di Falciano del Massico, ha rivelato una serie di sulci (filari), in cui dovevano essere sistemate le viti per la produzione del Falerno. All’interno dei solchi, al momento della scoperta, furono rinvenuti solo frammenti di ceramica fine di produzione africana, tipica del mondo imperiale romano. Si tratta di 15 solchi paralleli, disposti a una distanza di circa m. 2,70 l’uno dall’altro.

Massico, vigneto fossile romano

Massico, vigneto fossile romano

Columella, autore del “De re rustica”, raccomandava, infatti, che nei vigneti la distanza tra un solco e l’altro fosse di 10 pedes (3 m). I risultati delle analisi polliniche forniranno risposte adeguate, capaci di chiarire i tanti quesiti, ancora insoluti, sulle tecniche di coltivazione della vite falerna.

Sempre secondo Plinio fin dalla I metà del I sec. a.c. i vini italiani avevano cominciato a godere di fama uguale o superiore a quella dei migliori vini greci. Nello stesso periodo, però, cominciavano a farsi conoscere i vini spagnoli; la conquista dell’Ibera, nel 133 a.c., aveva reso possibile la concorrenza dei vini iberici. Il vino “Betico” arrivava a Roma in grande quantità; molto apprezzato era, secondo il poeta Marziale, il “Ceretano”, ossia il vino di Ceret (Jerez de la Frontera).

La coltura della vite, alberata etrusca, venne sostituita dal filare con intrecciata di canne, fino ad arrivare agli impianti a cordone e guyot. Il vino veniva fatto fermentare nei dogli, vasi di terracotta panciuti della capacità di 1000 l, e da qui travasato in anfore da 20 l, fra Marzo e Aprile, dove veniva lasciato a invecchiare anche fino a 20 – 25 anni. Queste informazioni sono tratte sempre dal “De re rustica”  di Columella,un vero e proprio manuale di viticoltura e tecnica della vinificazione.

I vini migliori, più strutturati, non venivano trattati, ma piuttosto arricchiti con l’aggiunta di defrutum, un mosto concentrato che alzava la gradazione di uno o due gradi alcolici. Le esportazioni di vino dalla costa adriatica verso la Grecia riguardarono, sotto l’impero, soprattutto i vigneti di Hadria (Atri), Praetutti e Ancona.

Il vino più pregiato veniva invecchiato, in soffitta o al sole (Banjuls), ma la maggior parte dei vini, proveniente da vigneti meno pregiati, o da vigneti troppo giovani, venivano addizionati con sale, acqua marina concentrata, resina e gesso, una vera e propria sofisticazione. Marziale parla di un mercante che al vino (grossolano) di Sorrento, mescolava gli avanzi di vini pregiati di Palermo, ottenendo un prodotto scadente che però rendeva bene. A volte il vino veniva migliorato dai produttori col taglio, col miele o aggiungendo aromi al mosto.

Durante l’epoca repubblicana ed imperiale i Romani diffusero la vite non solo in Italia, ma in gran parte delle province che man mano conquistavano e che poi, in particolar la Gallia, richiedevano vini in abbondanza. I vini ricercati dai romani erano liquorosi per poi annacquarli, mentre i Galli bevevano il vino puro, non miscelato con l’acqua, cosa che i romani consideravano incivile perchè portava all’ubriachezza.

L’espansione della viticoltura nella Sicilia e nell’Italia meridionale ben presto determinò, una contrazione delle importazioni di vino dall’Egeo e dalla Grecia e nel III sec. a.c. l’Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l’esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a.c.

Fra gli scambi commerciali del Urbe, ricchissimo era il commercio del vino, come testimonia il Testaccio, una collina alta 35 metri e con un perimetro di 850 metri alla base, poco distante dal Tevere; la cui origine deriva dallo scarico dei cocci (in latino: testa) delle anfore vinarie e olearie gettati via dai mercati del vicino emporium. Nonostante siano trascorsi millenni e il mondo si sia completamente trasformato, Roma rimane circondata da vigneti e caratterizzata da una produzione di vini che continuano a essere richiesti e apprezzati soprattutto dai romani.

Il vino era parte essenziale di ogni banchetto, per lo più diluito con acqua calda o fredda, secondo i gusti e la stagione, e berlo puro non era considerato di buon gusto, sia perchè le cene abbondavano di brindisi e libagioni, sia perchè all’epoca erano maggiormente alcolici, sia perchè a volte si aromatizzava o dolcificava il vino in vari modi, anche se Plinio sosteneva la superiorità del vino senza aggiunte. La birra era conosciuta ma poco stimata. D’altronde il suolo italico si chiamava allora Enotria, cioè terra dei vini.

Il vino poteva essere Atrum (rosso) o Candidus (bianco) o Rosatum (rosato)
Apicio ricorda un vino mielato condito con il solo pepe e, aggiunge che questo vino si conservava a lungo e per questo veniva dato ai viandanti.
Sempre in Apicio si legge che il rosato si poteva ottenere anche prendendo delle foglie verdi di limone che, dopo averle sistemate in un cestino fatto con foglie di palma, dovevano essere messe nel mosto e lasciate in infusione per 40 giorni. Al momento dell’utilizzo vi si doveva aggiungere del miele.

Il culto del vino, soppresso nei baccanali, riapparve negli ultimi anni della Repubblica con le feste viticole istituzionali, i Liberalia del 17 marzo per celebrare il dio Libero-Bacco, ed i Vinalia, festa del 19 agosto per propiziare la vendemmia.

La classificazione di vini in epoca romana

Gli haustores, i sommeliers dell’epoca, classificavano i vini in molti modi: dolce, corposo, soave, nobile, prezioso, forte, delicato, ecc., dimostrando di avere un palato non inferiore a quello degli esperti odierni. Inizialmente le varietà di uve da vino più famose, di origine greca e molto coltivate in Sicilia, nella Magna Grecia e nelle conquiste romane, erano le “Aminee” e le “Nomentanae” ricche di colore; esse davano vini pregiati. Vi erano anche le “Apianae o Apiciae”, uve a sapore moscato che, quando erano mature, attiravano le api (“apes”).

Si piantavano, però, anche viti più produttive e resistenti, provenienti dalle province, quali la “Balisca” (originaria, secondo Columella, di Durazzo in Albania), la “Rhaetica” molto diffusa nel veronese e la “Buririca”, che ha dato origine ai vigneti di Bordeaux, oltre alla “Lambrusca”, vite selvatica dalla quale si ottenevano vini di scadente qualità.

Orazio, avvertendo Mecenate che sarà suo gradito ospite, lo avverte però del suo desco modesto, nominando quattro superbi vini campani, tutti molto cari: “Caro Mecenate, tu sarai solito bere a Cecubo e Caleno, ma nelle mie coppe non si mesce nè il Falerno nè il Formiano”.

Ecco alcuni vini dell’epoca con i nomi originali:

VINUM ADRUMENJTANUM – Sicilia
VINUM AGLIANICUM – Campania e Basilicata, vino rosso.
VINUM ALBA LUX – detto oggi Erbaluce, piemontese, bianco.
VINUM ALBANUM – del Lazio e dell’Emilia, poco pregiato.
VINUM ALBARENZEULI – bianco della Sardegna.
VINUM ALBAROLUM – bianco, della Liguria.
VINUM ALEATICUM – Campania, molto zuccherino.
VINUM APIANUM – bianco della Campania presso Avellino.
VINUM BELLONAM – in onore della Dea Bellona, laziale, oggi Bellone.
VINUM BENEVENTANUM – Campania
VINUM BIBLINUM – siciliano
VINUM BRACHETUM – rosso frizzante del Piemonte. Si narra che ne facesse uso Cleopatra.
VINUM CAECUBUM – Cosiddetto da un luogo palustre della Campania presso il golfo di Gaeta (Strab.), molto celebrato dagli antichi (Herat,; Mart. ), e divennto rarissimo già al tempo di Plinio. E’ ricordato in una iscrizione metrica di un pilicrepus: “et merum pro fundi te nigrum Falernum aut Seiinum aut Caeculum” etc. e sopra delle moltissime anfore trovate insieme in Roma in questi ultinii anni. Vitigno scomparso, che cresceva a sud del Lazio in un terreno paludoso, soprattutto nel Golfo di Amicla nel territorio tra Terracina e Gaeta, pregiatissimo.

Cecubo si suppone derivi da caecus (cieco), congiunto a bibeo (bevo), o bibere (bere), vocaboli fusi insieme ad identificare il bere del cieco, cioè la bevanda preferita proprio da Appio Claudio Cieco. Plinio il Vecchio classificò prima il Cecubo e, poi, il Falerno, precisando antea coecubum, postea falernum.

E la dice lunga quel postea falernum, cioè dopo il celeberrimo vino che Petronio, nella famosa cena, fece offrire da Trimalcione ai convitati, esterrefatti, con il commento: questo vino ha cento anni; esso ho vita più lunga dell’uomo. Columella, poi, nel De Agricoltura, individuò il sito di produzione del miglior vino dell’Impero sulle alture sopra la “spelunca”, oggi Sperlonga.

Orazio, nella seconda ode, ricorda che i vini cecubi erano nascosti, come un bene prezioso, sotto cento chiavi, ed erano superiori persino a quelli offerti negli opulenti banchetti dai Pontefici.

Il medico greco Galeno così lo definisce: “gradevolissimo, di buon tono, di forte sostanza alimentare, ottimo per l’intelligenza e per lo stomaco”.

VINUM CALENUM – dalla Campania, pregiato e delicato, esaltato da Orazio, Giovenale e Plinio.
VINUM CATINIENSE – Sicilia.
VINUM CAUDA VULPIS – Campania, bianco.
VINUM CAESANUM – rosso del Lazio, conosciuto fin dall’Antica Roma quando i coloni disboscarono la montagna per fare spazio ai vigneti. oggi Cesanese.
VINUM CAERETANUM – presso Caere Lazio.
VINUM COLUMBINUM – rosso, della Campania, citato da Plinio.
VINUM CUMANUM – pregiato come tutti i vini campani. Delle falde Vesuviane.
VINUM FALANGHINUM – campania, si ritiene fosse uno dei componenti del Falerno.
VINUM FALENUM – di Capua, molto pregiato.
VINUM FALERNUM – della Campania, molto alcolico, di colore ambrato o bruno, raccomandato con 10 anni di invecchiamento e con due specie: il secco e il dolce. Plinio invece ne distingue tre specie: austerum, dulcis, tenuis.
VINUM FAUSTIANUM – Campania
VINUM FONDIANUM -  di Fondi, molto amato.
VINUM FORMIANUM – della zona di Formia, pregiatissimo.
VINUM GALIAE -  i vini della Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti.
VINUM GARGANECUM – si pensa di origine greca, del Veneto.
VINUM GAURANUM – Campania.
VINUM GRAECUM – di Chio, di Sicione, di Cipro. Oltre allo spumante “Aigleucos” molto apprezzato dai Romani.
VINUM HADRIANUM – Emilia
VINUM HISPANICUM – Anche i vini spagnoli erano di largo consumo. Nel 202 a.c. con la sconfitta di Cartagine e di Annibale, le regioni costiere della Spagna erano divenute colonie dell’Impero. Nelle province di Tarragona, Andalusia e nella città di Cadice, il vino era di ottima qualità ed arrivava a Roma in circa una settimana ed era usatissimo dai Romani.
VINUM LESBICUM – da Lesbo
VINUM LITERNUM – da Literno
VINUM MARONEUM – con alta gradaziome alcolica
VINUM MASSICUM – della Campania vicino al monte Massicum, non pregiatissimo, ma tonico e robusto.
VINUM MARSILIAE – di Marsilia, non pregiato.
VINUM MEMERTINUM – o mamertinum, siciliano, molto pregiato, prodotto nei pressi di Messina e fatto conoscere da Giulio Cesare.
VINUM MOSCATUM – bianco di Sardegna
VINUM NASCUM – bianco di Sardegna.
VINUM NOMENIANUM (o Nomentanum) – Lazio.
VINUM NURAGUM – bianco sardo.
VINUM OPIMIAM – richiedeva un invecchiamento di 25 anni, pregiatissimo, in Trimalcione il vino offerto ha 125 anni, praticamente impossibile la buona conservazione.
VINUM PELIGNUM – abruzzese.
VINUM PIPERNUM – prodotto a Piperno.
VINUM POLLIUM – siciliano e pregiato.
VINUM POMPEIANUM – della zona di Pompei, si invecchiava anche 25 anni.
VINUM PORTULANUM – siciliano e pregiato
VINUM POTITIANUM – Sicilia.
VINUM PRAECIANUM – di origine veneta
VINUM PRENESTINUM – Lazio
VINUM PRANNIUM – prodotto presso Smirne, molto pregiato.
VINUM PREATORIANUM – abruzzese, molto amato dai pretoriani
VINUM PULCINUM -  del territorio di Aquileia piaceva molto a Livia, moglie dell’Imperatore Augusto.
VINUM RAETICUM – del Veneto.
VINUM SABINUM – del Lazio.
VINUM SENIANUM -  prodotto a Segni.
VINUM SCIITICUM – di Scio
VINUM SETINUM – da Seria, odierna Sezze Romana.
VINUM SORRENTINUM – di Sorrento, molto pregiato e leggero.
VINUM TARENTINUM – dalla Puglia, paragonato da Orazio al Falerno, quindi ottimo.
VINUM TAUROMENITANUM – prodotto nell’attuale Taormina, in Sicilia.
VINUM TIBERTINUM (o Tiburtinum) – molto pregiato, Lazio
VINUM TREBELLUM – di Napoli, molto apprezzato.
VINUM TRIFULINUM – della campania, alle falde Vesuviane, pregiato.
VINUM VAIETANUM – del Lazio, vicino Roma.
VINUM VELLERANUM -  prodotto a Vallerano, territorio dell’antica gens Valeria, nell’agro romano.
VINUM VERNACULUM – della Sardegna.
VINUM VATICANUM – Lazio.
VINUM VOLTURNUM – dal territorio campano presso il fiume Volturno.

I vini speziati

- Ippocras. Vino, ambra, pepe, mandorle, muschio, susina, zenzero, cannella, chiodi di garofano e fiori di mais.
- Vinum mulsum. Il vinum mulsum era il vino dolcificato col miele, ma talvolta la dolcificazione avveniva includendovi frutta molto dolce, come i fichi o i datteri. Columella suggerisce, per ottenere dell’ottimo mulsum, di impiegare il mosto derivato dal naturale gocciolamento dell’uva prima che venisse pigiata.
- Granum paradisi. Vino, chiodi di garofano, miele, zenzero, cannella.
- Conditum paradoxum. Vino cotto con miele, alloro, datteri, pepe,
- Vinum gustaticium. Un vino aperitivo che si beve a digiuno prima del pasto, era un vino al quale si aggiungeva miele
- Vinum rosatum. Con petali di rosa, bene asciutti, ai quali era stata tolta l’”unghia” bianca e questo procedimento doveva essere ripetuto per tre volte ogni sette giorni. Quando si trattava di utilizzare questo vino: rosatum, bisognava aggiungervi del miele.
- Vinum violacium. Se poi al posto dei petali di rose si utilizzavano dei petali di viole, si otteneva il violacium.
- Vino e lentischio.
- Vino e assenzio.
- Vino e mandragora.
- Vino con finocchio.
- Vino con anice.
- Vino con rosmarino
- Vino e passum (uva passita)
- Vinum passum, fatto con uva secca.
- Vino, acqua di mare e colofonia.
- Vino, mirra, canna, giunco, cannella, zafferano e palma.
- Vino con pece e mirra.

La mirra era considerata un ottimo condimento. Marziale suggerisce, a coloro che bevevano il Falerno caldo, di unirvi la mirra perché ne avrebbe esaltato il sapore. C’era anche l’usanza di porre nel vino piccole pepite d’argento per esaltarne il sapore.

 
“Ogni tanto è bene arrivare fino all’ebbrezza, non perché questa ci sommerga ma perché allenti la tensione che è in noi. L’ebbrezza scioglie le preoccupazioni, rimescola l’animo dal più profondo e, come guarisce da certe malattie, così guarisce anche dalla tristezza”
Seneca

 








16 Commenti


Nic Marsél commenta:
18/09/2014 ore 17:26

Sono Pazzi Questi Romani

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Massimiliano Montes risponde:
September 18th, 2014 ore 19:01


@Nic Marsél, SPQR :-)
Praticamente il Falerno era un po’ come il nostro Romanée-Conti!

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Lorenzo risponde:
September 19th, 2014 ore 10:08


@Nic Marsél,
Forse è ora che i francesi la smettano di dire che i clos, i cru ed i climat se li sono inventati loro. Semmai io direi il contrario, è il Romanee Contì che è quello che fu il nostro Pelignum o Memertinum. Come del resto anche la rifermentazione in bottiglia ed i vini muffati… non è che se li sono inventati i Francesi, non crederete davvero alla storiella di Dom Perignon? :)

Non ci dimentichiamo che tutta la cultura del vino ecclesiastico che ha vissuto la Borgogna, l’Alsazia ed altre zone della Germania, altro non è che “quello che rimaneva” dell’avvento delle orde barbare e delle dominazioni successive nella penisola italiana.
I frati hanno avuto il solo merito di aver conservato, preservato e tramandato la cultura, per il resto direi che è ora che l’Italia enoica si riprenda il posto nella storia che merita, ovvero quello dell’invenzione dell’agronomia vitivinicola moderna ed anche dell’enologia applicata.

La cosa interessante è che il De Re Rustica di Columella, che ho il piacere di avere a casa in una edizione del 1541 pubblicata, guarda caso, proprio in Francia, è rimasto il testo di viticoltura di riferimento fino alla metà del 600 per poi essere soppiantato da altri testi di provenienza principalmente italiana, di cui, per ovvi motivi, ora non ricordo il nome ma che mi riprometto di postare.

Columella è stato un genio della viticoltura e dell’enologia, aveva moltissime tenute “sperimentali” dove effettuava test di potatura, innesto, acclimatamento vegetale, conduzione agronomica e vinificazione. E’ veramente un testo importante nel mondo enologico. Però, ahimè, come al solito in Italia, guardiamo sempre “all’estero”.

Complimenti, bellissimo articolo, finalmente un pò di cultura vera di cui il consumatore medio ha un bisogno estremo!

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Nic Marsél risponde:
September 19th, 2014 ore 12:21


@Lorenzo, e se gli amici Greci avessero da ridire? Così come i discendenti dei Fenici sparsi per il mediterraneo? E cosa dovrebbero dire allora dei Georgiani tenutari forse del segreto più remoto? :-)

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Lorenzo risponde:
September 19th, 2014 ore 12:59


@Nic Marsél,
se vogliamo dirla tutta i primi esempi di localizzazione della viticoltura sono di epoca egizia, il produttore era impresso nell’anfora (non so come si chiamasse quella egiziana) che trasportavail vino.

Ma qui dobbiamo fare una doverosa distinzione, una cosa è il fare il vino in maniera, passami il termine improprio, fortuita… alla come viene viene. Altro è avere un approccio scientifico, produttivo e, soprattutto, storicamente riportato nei libri e, di conseguenza, unico modo che abbiamo noi per fare questi confronti. Qui solo i Romani fecero un lavoro in maniera strutturata.

Ciò che accadde prima dei Romani è sempre più evanescente, che la vitis vinifera sia originaria della Georgia è una teoria suffragata da ritrovamenti, ma ci sono altri scrittori che dicono che la vitis vinifera non fu importata in quanto la Sicilia già l’aveva. Tanto per fare un esempio.
Lo stesso Diodoro Siculo dice che i cartaginesi importavano il vino dalla zona del trapanese e dell’agrigentino, proprio perchè loro non avevano ancora le viti. Poi i cartaginesi decisero che la Sicilia occidentale era molto più vocata al grano e quindi il memertinum è orientale.

Detto questo, io non penso che avrebbero qualcosa da ridire, io non sostengo che i romani siano stati i primi, ma, semplicemente, che furono loro i primi ad effettuare viticoltura ed enologia in maniera scientifica e strutturata.

Lo stesso Prof. Scienza sostiene che tutti i vitigni internazionali abbiano radice genetica dagli autoctoni italiani. E te ne dico un’altra dato che vedo che parlate molto di Etna, sapete che il Nerello è parente strettissimo del Sangiovese?

Sicuramente quanto sento i vigneron borgognotti dire che loro si sono inventati i clos ed i cru, a me personalmente fa un pò ridere, tutto qui. Ma è marketing, cosa che loro, devo dirlo sinceramente, sono molto più bravi di noi a fare. Anche perchè sai bene che i “veri” crù non esistono più dai tempi di napoleone.

Se dobbiamo dirla tutta, diciamola :)

Comunque bellissimo confronto.

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Massimiliano Montes risponde:
September 19th, 2014 ore 16:16


@Lorenzo, bisogna essere intellettualmente onesti, e mai campanilisti. Sostengo sempre che il luogo geografico di nascita è un evento stocastico.
Ci sono debite differenze. I Romani erano grandi esperti di ingegneria, popolo guerriero, e abili condottieri. I terrazzamenti in Mosella così come quelli lungo il Douro (Porto) li hanno fatti loro.
Però non brillavano per acume intellettuale…
Cultura e capacità intellettuali furono mutuate dai Greci. La conoscenza della cultura ellenica fu devastante per la società romana. Creò spaccature e dissapori tra chi voleva conservare i “costumi dei padri” e chi invece rimase affascinato dai modi e dalla cultura greca.
Storiche sono le battaglie sociali tra Catone e Scipione.
Ritornando al vino i Romani hanno indubbi meriti, ma i loro non erano cru. L’unico cru di cui si può parlare è quello delle colline (vago) vicino Sperlonga citate da Columella.
La gestione delle fermentazioni e l’affinamento erano approssimativi, se non casuali, e la necessità di addolcire il vino col miele derivava dai troppi difetti.
Ai francesi va il merito di aver studiato e sperimentato strumenti non solo agronomici, ma di cantina, per ottenere i migliori risultato organolettici.
Sperimentazioni che risalgono al tardo medioevo da parte dei monaci Benedettini di Borgogna. I quali ottennero risultati talmente buoni da attirarsi le critiche dei vicini monaci Cistercensi, fedeli ai dettami di austerità di Bernardo di Chiaravalle.
I vini muffati, intesi come tecnica voluta e non come risultato occasionale, nascono in Ungheria. Luigi XIV diede mandato agli enologi di corte di copiare quel meraviglioso Tokaji che i sovrani d’Ungheria gli portavano in dono. Così nacque il Sauternes.
Infine tu dici che il Nerello ha parentele col Sangiovese, ma quale Nerello? Il Mascalese o il Cappuccio? Perchè sono due uve completamente diverse.

Lorenzo commenta:
19/09/2014 ore 18:03

@Massimiliano Montes,
occhio, nessuno mette in dubbio i valori e le innovazioni enologiche avvenuta ad opera dei cistercensi. E ci mancherebbe.
Quello che sto dicendo io è una verità storica, ovvero che loro si sono limitati a contestualizzare una tecnica che non è nata lì, ma sul terreno italiano. Cosa di cui si è persa traccia perchè sono arrivati i barbari, quindi, l’unica traccia storica da quel momento in poi è quella.
Da questo momento storico in poi c’è stata un’evoluzione che è sbocciata da lì ma che è frutto dell’evoluzione tecnologica. All’epoca dei romani non esisteva mica il fiammifero olandese (ndr. la solforazione della botte per conservare il vino durante il trasporto).

Constestualizzando diciamo che i vari falernum, pelignum etc. sono più vicine alle moderne DOC o alle classificazioni dei CRU (premier etc.) che all’analisi qualitativa del CRU e del Climat.
Non dimenticarti però che furono i romani, ed è storicamente accertato non solo dal nostro amico Columella, ad inserire sulle anfore delle distinzioni del vigneto di provenienza all’interno dello stesso produttore, anzi, in determinati casi era riportato proprio quello che oggi chiameremo il “winemaker” che, all’epoca, faceva la differenza. E’ come se fosse riportato in etichetta un Tachis od un Cotarella, tanto per fare nomi noti.

E non fraintendermi, questo non è campanilismo, è solo raccontare la storia com’è andata. Semmai il campanilismo è loro quando ti raccontano che Dom Perignon s’è inventato la rifermentazione in bottiglia. (che, in realtà, fu scoperta dai romani nelle anfore e riscoperta dagli inglesi molti secoli più tardi)

Sul discorso delle correzioni dei Romani c’è un altro discorso molto più ampio da fare, perchè non è vero che il vino veniva corretto perchè usciva male, ma soprattutto per una questione di gusto del “mercato”. E’ famosa la storia dell’utilizzo del piombo (attraverso contenitori di peltro) perchè addolciva il vino e toglieva acidità… da qui tutto il saturnismo che è durato fino all’inizio del ’900.
I romani non sapevano spiegarlo, ma conoscevano perfettamente i segreti della fermentazione, dell’utilizzo dei recipienti, delle temperature etc. Ovvio che confrontare la tecnologia d’allora con quella di oggi è alquanto inutile…
Ma ti ripeto, qui non si sta facendo un discorso romano-centrico, solo che quando ti dicono che i cru delimitati dai muretti a secco se li sono inventati i monaci trappisti in borgogna, ti stanno dicendo una fandonia.

a presto

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Lorenzo commenta:
19/09/2014 ore 18:04

Ah, dimenticavo, il Nerello Mascalese

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Tonari commenta:
20/09/2014 ore 04:55

Mi domando sempre quale sia il merito degli Italiani se duemila anni fa un popolo completamente diverso eccelleva nel produrre una bevanda comunque differente da quella che oggi usiamo chiamare vino.
Studiare il passato è bello e utile, ma molti italiani, nonostante la lunga memoria, si dimenticano che il vino moderno è nato intorno al Settecento e ad insegnarci a farlo sono stati ahimé proprio i francesi.

Un’occhiata agli scritti di Cyrus Redding chiarisce come, ancora nella seconda metà dell’Ottocento, la situazione qualitativa del vino italiano fosse penosa, con rare eccezioni: il Barolo, che fu spinto proprio dalla Marchesa di Barolo (al battesimo Juliette Colbert di Maulévrier) ad imitazione dei vini francesi di cui aveva goduto da giovane; la spumantistica italiana, con Gancia (che aveva lavorato per Piper-Heidesick prima di fondare la sua azienda) e Antonio Carpene (in contatto con Koch e Pasteur); il Chianti (quello moderno, senza scomodare Cosimo de’ Medici) del Barone Ricasoli che “began working to modernize and improve Chianti [...] because, much like the Marchesa di Barolo, his discerning palate recognized the superiority of fine french wines[...]” (Paul Lukacs).
Per cui ringraziamo i Georgiani, i Greci, i Fenici per quello che hanno fatto per questa meravigliosa bevanda, ma non dimentichiamoci che se i francesi hanno un debito nei confronti dei Romani, anche gli italiani dovrebbero ringraziare i cugini d’oltralpe per due o tre cose. Senza tutte le volte stare a tirare fuori Cesare, Probo o Columella.

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Come fare un'infusione di canapa in 3 semplici passi - Hemp Me commenta:
01/02/2018 ore 01:53

[...] del miele rustico riuscivano ad ottenere bevande che erano molto apprezzate per sapore ed effetti (http://gustodivino.it/home-gusto-vino/il-vino-ai-tempi-dei-romani/massimiliano-montes/11445/). Ci sono molti modi per approcciarsi all’infusione della canapa, quello che proponiamo qui è il [...]

pino commenta:
01/04/2019 ore 13:19

Se beve e se Trinca

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Gennaro commenta:
25/04/2019 ore 14:02

Che bel posto, specialmente per ogni amante del vino. Grazie mille per aver condiviso e continuare il buon lavoro! :)

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Massimiliano Montes risponde:
May 17th, 2019 ore 09:55


Grazie Gennaro :-)

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Claudio Giorgini commenta:
27/05/2019 ore 12:49

Citazione:
- Ippocras. Vino, ambra, pepe, mandorle, muschio, susina, zenzero, cannella, chiodi di garofano e fiori di mais.
Fine citazione

C’è di sicuro un malinteso, dato che il mais venne importato in Europa dall’America alla fine del secolo XV e incominciò a diffondersi in quello successivo.

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mauro mingarelli commenta:
24/04/2020 ore 20:35

davvero un bel saggio uno dei migliori letti fino ad ora

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Il vino nell’antichità – Enotecavinovivo.com commenta:
26/09/2021 ore 14:46

[...] Romano, dove subiva un processo di ebollizione per prolungarne la conservazione. Anche il mulsum, un particolare vino con il miele, risale alla civiltà [...]





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